16 Maggio 2019
“Perdonatemi se pongo la questione in maniera molto semplice: credo che non esistano persone normali, perché non esiste una norma, nemmeno nelle esistenze di chi sembra condurre una vita ordinaria, e la figura del transgender è l’immagine che meglio rappresenta quest’idea, poiché dovrà, ad un certo punto, scardinare le proprie certezze”. Risponde così Banana Yoshimoto ad una domanda posta alla fine dell’incontro tenutosi il 16 maggio all’Università degli studi di Salerno, sull’influenza dell’androginia e del transgenderismo nelle sue opere. D’altronde, lo pseudonimo “Banana”, una parola pronunciata alla stessa maniera in quasi tutte le lingue del mondo, si rifà a questa neutralità, a questa malleabilità dell’esistenza. Una singolare convergenza di tematiche, poiché per tutto il dibattito, l’autrice non ha fatto altro che discorrere di vite ritenute dai più normali e riconoscibili, di orari, abitudini, gesti riproposti più e più volte.
Ad una domanda curiosa sullo svolgersi della giornata di una scrittrice, la Yoshimoto racconta del suo essere assorbita dalla vita familiare, dalla spesa, dalla cucina, dai rumori molesti dei videogiochi di suo figlio perpetrati fino a tarda notte, l’unico momento in cui l’autrice ha tempo di dedicarsi alla sua attività principale, la scrittura. Alcune volte, un’ospitata in tv interrompe la sua routine. Mentre scrive, suo figlio le chiede di preparargli del ramen, e il flusso si interrompe. Anche Kitchen, la prima opera di Banana Yoshimoto pubblicata in Giappone nel 1988 e lanciata in traduzione italiana mondiale grazie a Giorgio Amitrano, è nato così, durante il turno di lavoro al ristorante, tra le richieste dei clienti, in un momento in cui il pensiero di diventare una scrittrice non la pervadeva del tutto. “Eppure ho l’impressione che questo stile di vita intermittente mi sostenga. Anche quando non me ne rendo conto, tutta questa quotidianità non è altro che un ulteriore esercizio alla scrittura”. Tutto questo circostante, questa somma di esperienze, Banana Yoshimoto vuole impiegarle in un romanzo più lungo. Ora che ha più tempo a disposizione, afferma, desidera proprio scrivere di più.
In platea, tra le mani degli ammiratori, fioccano libri dell’autrice da firmare, pile di testi mantenuti in bilico sui braccioli delle poltroncine dell’Aula Magna. Tutti diversi, pochissimi titoli si ripetono. Di storie, perlopiù racconti, ne ha scritti pressappoco cinquanta. Ad un quesito sullo stereotipo diffuso rispetto alla scarsa difficoltà dello scrivere un racconto più breve, una delle specialiste più celebri della scrittura (come lei stessa la definisce) “a metà tra il racconto e il romanzo” risponde in maniera singolare: “il racconto breve necessita di numerose immagini, ho l’impressione che in questa forma le luci e le ombre di una storia si esprimano meglio. Nel romanzo lungo, è invece fondamentale dedicare particolare attenzione a tutte le parti non importanti o interessanti della trama. È necessario che lo scrittore ne parli, perché il successo della propria opera è determinato proprio dalla consapevolezza che l’autore ha di queste sezioni. Rispetto alla mia produzione, ho scritto più racconti che romanzi perché, tendenzialmente, mi annoia raccontare sempre la stessa storia.” Ed è questa tendenza alla deviazione, all’incoerenza, un’imprevedibilità talmente costante da diventare ordinaria ad attrarre i lettori più affezionati all’autrice giapponese. Ma cosa è ordinario e cosa non lo è, se la normalità non esiste? È una vita aritmica quella proposta da Banana Yoshimoto, che non ha ritmo, ma procede battito per battito, finché il muscolo cardiaco non si ferma e poi, lentamente, riprende a pulsare in un tempo tutto diverso. “Ogni volta che una difficoltà interrompe bruscamente la mia vita, più che pensare a perché è capitato proprio a me, penso in realtà che poteva capitare”.
Maria Vittoria Santoro