31 Agosto 2019
Lo stigma del culto della verginità in Bangladesh ha ricevuto il 25 agosto 2019 una stoccata netta e vincente. Precedentemente al 1971 (anno in cui il paese ottenne l’indipendenza), durante il periodo Pakistano, la legge riguardante matrimoni e divorzi prevedeva che l’assenza di rapporti sessuali venisse messa per iscritto sul certificato di matrimonio, richiesta, inoltre, non estesa al coniuge di sesso maschile. La parola incriminata è “kumari”, “non sposato” o “vergine” in bengali, un termine la cui pericolosità intacca ancora non solo le donne di religione mussulmana, ma anche quelle induiste. Il famigerato culto della dea vivente Kumari (celebre in Nepal, ma osservato in larga parte anche in Bangladesh) riduce ancora la libertà della bambina prescelta ai minimi termini. Anche lei diventerà “sporca”, non più degna, abbandonata dal divino: saranno le sue prime mestruazioni ad insozzarla (e liberarla) dalla sua santificazione.
Nel 2014, affrontando numerosi impedimenti burocratici, le associazioni Bangladesh Legal Aid and Service Trust (Blast), Naripokko e Bangladesh Mahila Parishad depositavano una petizione in cui denunciavano l’alto tasso di discriminazione proposto dal Kabinnama, il certificato matrimoniale la cui colonna 5 prevedeva, vicino al nome della sposa, di specificare se questa fosse vergine, vedova o divorziata. Dopo cinque anni di battaglie legali, il 25 agosto l’Alta Corte, con una sentenza storica, ha deciso che il termine “kumari” venisse sostituito da “obibahita”, il cui significato è (in questo caso inequivocabilmente) “non sposata”. “È una sentenza che ci dà la convinzione che possiamo combattere e creare ulteriori cambiamenti per le donne in futuro” ha dichiarato l’attivista e avvocato Aynun Naha Siddiqua.
Il matrimonio in Bangladesh rappresenta ancora una limitazione della libertà della donna, soprattutto in relazione alle norme legate al rapporto coniugale. Dopo il Niger, la Repubblica Centraficana e il Ciad, è la quarta nazione al mondo per l’ingerenza di matrimoni di ragazze minorenni. Lo stesso governo che ha appena rimosso la dichiarazione di verginità dal kabinnama, permette alle minori di 18 anni di sposarsi grazie alla volontà dei propri genitori “in circostanze particolari”, provocando tra le associazioni dedite al rispetto dei diritti umani il timore che, la maggioranza delle famiglie, costringa le proprie figlie vittime di stupro (l’abuso su minori è un crimine largamente diffuso nel paese) a sposare un maggiorenne per evitare l’esclusione sociale.
I gruppi impegnati nella tutela dei diritti delle donne in Bangladesh hanno accolto, nonostante tutto, di buon grado l’esito della sentenza. Separatamente infatti, l’Alta Corte Suprema ha deciso che, prima della cerimonia nuziale, anche l’uomo dichiari il proprio stato civile. Mohammad Ali Akbar Sarker, responsabile dell’anagrafe, ha dichiarato a Reuters: “Ho celebrato molti matrimoni a Dhaka e mi è stato spesso chiesto perché gli uomini hanno la libertà di non rivelare il loro status, ma le donne no. Suppongo che non mi verrà più posta questa domanda”.
Maria Vittoria Santoro