1 Dicembre 2018
Fatima Mernissi (ieri ricorreva il terzo anniversario della sua morte), sociologa femminista marocchina, nel capitolo finale del capolavoro “l’Harem e l’Occidente”, scritto negli anni 2000, esponeva il suo punto di vista sull’oppressione femminile dal velo alla taglia 42: “Fu in un grande magazzino americano, nel corso di un fallimentare tentativo di comprarmi una gonna di cotone, che mi sentii dire che i miei fianchi erano troppo larghi per la taglia 42. Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti quali l’Iran, l’Afghanistan o l’Arabia Saudita”. E ancora: “l’Occidente è l’unica parte del mondo dove la moda della donna è affare dell’uomo”. Una penna estremamente tagliente quella della Mernissi, il cui inchiostro si infila egregiamente tra le ipocrisie e i luoghi comuni instauratisi tra la cultura orientale e quella occidentale, soprattutto quelli riguardanti l’essere donna.
Sono trascorsi 18 anni dalla pubblicazione del testo, e nonostante le modelle “curvy” e i vari “body confidence”, la dittatura della vita stretta imposta dai grandi (uomini) dell’alta moda non ha abdicato. Se l’Hijab e il burqa costringono le donne orientali ad un corpo limitato nello spazio, l’esilità impone a quelle occidentali una fisicità costretta in un tempo che non dovrà mai essere “andato” (snella, giovane e bella), ovviamente con l’aggiunta di un piccolissimo tassello da rispettare: le proprie origini. Gli spot pubblicitari promossi da Dolce e Gabbana sull’account Instagram del brand, rimossi per accusa di razzismo nei confronti del popolo cinese, sono costati caro ai due stilisti: la cancellazione della sfilata\evento a Shangai previsto per il 21 novembre e rimozione della linea DeG dall’ ecommerce cinese. L’hashtag #BoicottDolce è entrato immediatamente in tendenza, tanto da costringere Domenico Dolce e Stefano Gabbana a pubblicare un video di scuse sul proprio profilo ai limiti del trash, senza riuscire a fare da rattoppo ad un abito tutto da scucire. I tre spot pubblicitari mettono in scena un susseguirsi di luoghi comuni degni del peggior ristorante fusion all you can eat da centro commerciale: una diafana cinesina vestita di rosso, guidata da una voce maschile, affronta con il suo sorriso perenne tre ardue prove da superare: mangiare pietanze italiane, anzi italianissime con le bacchette. Il primo step è la pizza, acchiappata con le punte di legno, ma con scarsi risultati. Non può prenderla con le manine, ma in Cina ci si arrangia. Secondo step: gli spaghetti. Un enorme piatto di spaghetti al pomodoro, troppo difficili da mangiare con due bacchette. Ancora digiuno per l’eroina, che dovrà affrontare la terza ed ultima prova.
Vi aspettate un mandolino? DeG sorprende gli spettatori con un enorme cannolo siciliano. “È troppo grande per te?”, recita la voce guida? Dolce e Gabbana, rappresentano in questo preciso periodo storico, il rapporto occidente\oriente e uomo\donna con estrema chiarezza. La moda italiana colpisce nel segno, la vostra suscita soltanto un po’ di ilarità. Basta osservare i vecchi servizi fotografici del brand per comprendere quanto i due stilisti italiani siano estremamente “legati al proprio territorio”, tanto da scadere essi stessi nei luoghi comuni sul nostro paese (basti guardare la campagna pubblicitaria con Bianca Balti e Monica Bellucci, mediterranea fino all’estremo, o gli stessi simboli adottati all’interno dei video sotto accusa). Quanto siamo obbligati a dare credito alle imposizioni maschili dell’alta moda italiana nel mondo? Nel paradigma velo e taglie piccole descritto da Fatima Mernissi, vale la pena aggiungere un nuovo discrimine: la nuova taglia 42 è casa nostra.
Maria Vittoria Santoro