18 Giugno 2023
“È molto faticoso staccarsi emotivamente da quello che abbiamo visto” è la prima affermazione dichiarata dopo la visione del documentario “È solo a noi che sta la decisione” (conservato e digitalizzato da CSC – Archivio Nazionale Cinema Impresa) e di alcuni stralci dell’arringa dell’Avvocata Tina Lagostena Bassi in un processo per stupro. Le due proiezioni del 1 giugno chiudono la rassegna “Cineforum La Macchia 8.0: Profilo Femminile” e si avvalgono delle relatrici Anna Cavaliere, docente presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Salerno e Anna Maria Licciardello, Responsabile Area Diffusione Culturale Cineteca Nazionale.
Ad aprire la discussione sono le riflessioni della docente sulle parole dell’avvocata Tina Lagostena Bassi, estratte dal documentario “Processo per stupro”. Un prodotto estremamente innovativo per il periodo storico in cui è stato creato, mandato in onda nel ‘79 in seconda serata con un seguito di tre milioni di spettatori. Il giorno dopo, un titolo del Corriere della Sera, recitava “Ecco, gli italiani hanno scoperto che cos’è lo stupro”, un resoconto crudo e veritiero per la società dell’epoca. Il termine “stupro” deriva dal latino “stuprum”, che significa l’onta, la vergogna, e lo stupro è stato considerato a lungo nel nostro paese – e se le cose sono cambiate è anche merito di questo documentario e del lavoro dell’Avvocata Tina Lagostena Bassi – un reato contro la morale e non contro la persona. Una concezione che non si limitava ad essere solo una questione di definizione, ma che incideva anche sul modo in cui erano costruiti i processi contro gli stupratori, durante i quali i ruoli di accusa e difesa venivano puntualmente capovolti. Era la donna ad essere accusata, colpevole di essere uscita in orari poco consoni alla propria morale, di aver combattuto per avere una parità di diritti di cui la violenza era considerata semplicemente un effetto collaterale.
È l’intero Movimento femmista, che trova la massima ascesa in quegli anni, ad essere chiamato al banco degli imputati. “Se un gioielliere subisse una rapina da parte di quattro rapinatori armati, qualcuno di voi si occuperebbe di indagare la moralità di quel gioielliere? Qualcuno di voi si occuperebbe di indagare i costumi di quel gioielliere?” è la replica dell’avvocata Tina Lagostena Bassi, difenditrice di parte civile, che con questa analogia pone l’accento su un concetto che non si discosta di molto dalla realtà contemporanea. Una campagna realizzata negli Stati Uniti d’America contro la violenza sulle donne lanciava lo stesso messaggio: i dettagli di una denuncia per un furto sporta da un uomo in una stazione di polizia, si focalizzavano più su che cosa indossasse in quel momento che sul reato stesso. Una situazione surreale che si adatta perfettamente alla realtà se il reato da denunciare riguarda una violenza di genere. Un’idea che è ancora radicata nel senso comune e che rende necessarie manifestazioni come la mostra di Roma “Com’eri vestita?”, esposizione itinerante contro gli stereotipi che colpevolizzano chi subisce uno strupro. Uno stupro è un reato e in quanto tale deve essere trattato, tutto il resto è irrilevante. Nonostante la proposta di legge avanzata nel 1980, lo stupro resterà un reato contro la morale fino al 1996.
Che cosa può fare il diritto in questo senso? È la domanda alla quale la Prof.ssa Anna Cavaliere prova a dare una risposta. E per farlo si affida al testo “Le donne sono umane?” di Catharine A. MacKinnon che documenta tutti i casi di stupro e violenza sulle donne nel mondo. Una violenza sistematica su cui il diritto può smuovere qualcosa. Mackinnon, teorica del diritto e avvocata, ha portato avanti cause importanti come i casi di violenza carnale subita dalle donne nell’ex Jugoslavia, stupri sistematici e legati ad un progetto preciso. Negli USA è stata portavoce di una battaglia per la legge contro le molestie sui luoghi di lavoro, non percepite come un’ingiustizia nel senso comune prima dell’introduzione della norma. C’è un rapporto di circolarità tra la realtà e il diritto, e ad intimidire non è tanto la pena giuridica, conseguenza del comportamento di violenza, quanto piuttosto il timore di una sanzione sociale che può portare ad un’esclusione e una condanna comunitaria difficile da sopportare.
Lo stretto rapporto tra realtà/dritto è evidente anche nel documentario “È solo a noi che sta la decisione”, pellicola amatoriale di Isabella Bruno, testimonianza diretta del dibattito acceso degli anni ‘78 sul tema del diritto all’aborto. Nelle discussioni parlamentari e comunitarie, le voci delle donne vengono surclassate dall’egemonia maschile. Ed è proprio questo che vuole denunciare il documentario che, oltre a spiegare che cosa sia l’aborto e quali sono le procedure preposte, cerca di restituire – nel senso letterale del termine – il microfono alle donne. Ancora oggi, puntualizza la Prof.ssa Cavaliere, il riconoscimento all’interruzione di gravidanza è un diritto, ma rischia in molti casi di essere inefficace anche perché vi è la norma (pur legittima) per l’obiezione di coscienza che è diventata un boomerang.
Per la Dott.ssa Anna Maria Licciardello, seconda ospite della giornata, le proiezioni rappresentano due aspetti diversi del cinema femminista degli anni ‘70. “È solo a noi che sta la decisione” è un film militante, autoprodotto, realizzato da una ragazza – Isabella Bruno – nell’ambito di un movimento, incentrato sul bisogno di emergere da parte del genere femminile. “Processo per stupro” (da cui è tratta l’arringa proposta in aula), invece, è stato realizzato per la televisione e nasce dall’idea di un collettivo di donne già molto attivo in quegli anni durante una conferenza internazionale contro la violenza sulle donne. Come ricordato molte volte nel corso del dibattito, ha totalizzato un elevato numero di ascolti ed è stato trasmesso dalla Rai per due volte: nell’aprile e nell’ottobre del 1979.
Il docu-film della Rai è estremamente interessante anche a livello cinematografico, ispirato al cinema-verità che per la prima volta riprende direttamente quanto si svolge all’interno dell’aula del tribunale. Un prodotto di grande qualità e di respiro culturale, una scelta coraggiosa difficile da eguagliare. Che cosa successe all’interno delle dinamiche Rai in quel periodo? Alla domanda della docente Anna Cavaliere, la Dott.ssa Licciardello risponde ricordando quanto gli anni ‘70 siano un periodo di enorme trasformazione della società italiana in tutti i settori sociali, lavorativi, politici, culturali, estetici. Proprio nel ‘75 ci fu la riforma della Rai, con la quale fu tolto il monopolio della possibilità di trasmissione audiovisiva e radio (con la nascita progressiva delle TV private) ed è stata creata la terza rete che insieme alla seconda ha dato spazio a realtà regionali e sociali. La dirigenza del secondo canale era affidata al giornalista Massimo Fichera, che ha permesso di mettere in luce le tematiche rivoluzionarie e sociali di quegli anni. Un esempio è la trasmissione “Si dice donna”, con una redazione totalmente al femminile, che dal ‘78 all’82 ha portato all’attenzione degli/delle spettatori/trici argomenti legati al movimento femminista come lavoro, sessualità e salute. Un’apertura mentale da parte della dirigenza Rai che diventa una breve parentesi chiusa proprio negli anni ‘80 quando la produzione decide di censurare “A.A.A. OFFRESI”, secondo prodotto dello stesso collettivo di “Processo per stupro”, che riguardava il rapporto economico per le prestazioni sessuali offerte da una donna. Del documentario, ancora oggi, si sono perse le tracce. Un’Italia diversa, specchio di una società del popolo, unico elemento che può essere garanzia di una democrazia effettiva.
Il cinema, come qualsiasi altro ambito, vive lo stesso tipo di discrimazione degli altri contesti lavorativi in cui spesso il contributo delle donne viene sminuito. Questo incide sull’autostima stessa delle donne di generazione in generazione. Virginia Woolf scriveva in “Una stanza tutta per sé” che “ i capolavori non nascono soli e isolati; sono il risultato di molti anni di pensiero in comune, il pensiero del popolo, sicché tutta l’esperienza della massa si aduna dietro quella voce isolata”. Se non si ha la possibilità di riconoscersi in donne che hanno agito prima di altre, si parte con difficoltà, si ha bisogno di uno sforzo maggiore per far sì che il proprio lavoro possa essere apprezzato. Bisogna valorizzare e sostenere il lavoro delle donne per farle emergere perché soltanto facendo ed essendo massa critica si agisce.
Il dibattito in aula ritorna ad incentrarsi su quanto il diritto incide sulla società, in particolare in riferimento all’abolizione del matrimonio riparatore nel 1981 e alla sentenza della Cassazione del 1998 nella quale un istruttore di guida fu assolto dall’accusa di stupro perché la ragazza indossava dei jeans aderenti (da qui nascerà la ricorrenza del “Demin Day”). In aula, allora, analizzando i due avvenimenti ci si chiede quanto siano lunghi i tempi del diritto nel rendersi conto dell’evoluzione della società e come quest’ultima possa agire per farsi ascoltare. A rispondere è la Prof.ssa Anna Cavaliere che ricorda innanzitutto che l’Italia, a differenza degli USA, si basa su un sistema di Civil Law, di conseguenza il presidio dei diritti è affidato alla Legge. Il problema è che spesso l’assenza della politica lascia alla Magistratura un ruolo di supplenza che non può svolgere perché, in quanto potere imparziale, non dovrebbe essere strumentalizzato per liberare la politica dall’assunzione di una posizione su una questione delicata. I giudici sono persone che ovviamente si fanno condizionare dalle proprie visioni del mondo. Ci sono colleghi che si occupano di femminismo giuridico che evidenziano come condizionamenti ideologici, di stampo patriarcale, incidono sulle sentenze, sulle decisioni amministrative, documentano con un lavoro molto rigoroso come le sentenze non abbiano uno sguardo “da nessun luogo”. L’idea che il diritto abbia uno sguardo da nessun luogo è sbagliata in quanto è impossibile avere uno sguardo da nessun luogo. Abbiamo tutti uno sguardo che può essere più o meno condizionato. L’unico modo per mettere a riparo il diritto è riconoscerlo per legge. Nello Stato di diritto, gli equilibri funzionano così. La forma massima di riconoscimento dei diritti nel nostro ordinamento è data dal fatto che gli stessi sono presenti nel nucleo duro della Costituzione e non possono essere soggetti a revisione. La Costituzione può essere cambiata, ma quella parte no. L’art. 139 Cost. afferma che la forma Repubblicana è immodificabile (solo con un colpo di Stato la potrebbe cambiare). I diritti fanno parte della forma repubblicana. Questa è la forma massima di garanzia che possa essere offerta nel nostro ordinamento ad un diritto. Poi esistono i diritti riconosciuti per legge che tanto fanno nella vita delle persone. Lo storico torinese Revelli affermò che lo Statuto dei lavoratori fu il modo in cui la Costituzione entrò nelle fabbriche. A Costituzione emanata, i lavoratori non avevano ancora diritti, non erano in una condizione diversa rispetto a quella pre-Costituzione del ‘48. Il modo in cui i diritti contenuti in Costituzione divennero effettivi fu lo Statuto dei lavoratori. La tutela che offre la Giurisprudenza è importante, ma non può sostituirsi al legislatore.
Su quanto la cultura del cinema amatoriale sia ancora presente, la Dott.ssa Licciardello, risponde affermando che il cinema, come mass media, ha perso la centralità che aveva durante il ‘900, non è più vissuto come un’esperienza collettiva. Questo ha inciso sulle produzioni alternative che sono diventate più che altro digitali, prive del lavoro militante degli anni ‘70 in un contesto culturale completamente diverso.
La discussione successivamente si sposta sul concetto di femminismo – che per la docente Cavaliere è necessario declinare al plurale – e sull’importanza di un uso corretto di un linguaggio inclusivo: ogni singola battaglia conta, dà il proprio contributo. Nel 1791 Olympe de Gouges, protofemminista dell’epoca, pubblicò la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, un documento giuridico completamente nuovo perché i diritti dell’epoca erano stati pensati e scritti per gli uomini (“Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”). Nel ‘900 dall’unione dei documenti nasce la “Dichiarazione universale dei diritti umani”. Femminismo significa agire personalmente ma combattere collettivamente, e in una società maschilista bisogna agire e mutare le condizioni collettive, altrimenti una donna che raggiunge una posizione di potere adotterà una mentalità maschile come istinto di sopravvivenza. La problematica del soffitto di cristallo, espressione che si riferisce alle barriere invisibili, ma impenetrabili, che si frappongono tra i ruoli dirigenziali e le donne, impedendo a queste ultime di raggiungere i vertici nell’ambito del business, indipendentemente dai risultati ottenuti e dai loro meriti, riguarda tutti i settori. Le condizioni di subalternità e sfruttamento che le donne subiscono è un dato esplicativo del soffitto di cristallo. Se non agiamo su come migliorare la qualità della vita del 99% delle donne, diventa riduttivo concepire il femminismo come una battaglia dell’1%. Nell’ambito accademico vi è molta considerazione della battaglia femminista, ma spesso ci si sofferma su un femminismo prettamente egemonico e non concreto. Bisogna agire per abbattere il soffitto di cristallo perché poter osservare una donna in un ruolo di potere è un bene per tutte le altre donne delle generazioni future.
La voce delle donne deve emergere, la cultura dello stupro esiste e deve essere approfondita, analizzata e decontestualizzata pezzo dopo pezzo. Sono le donne a dover scegliere chi voler essere e quali decisioni intraprendere nel loro percorso formativo, culturale e personale.
Manifestazione realizzata con il contributo dell’Università degli Studi di Salerno.
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