18 Giugno 2023
Bias: obliquo, inclinato, una distorsione attuata da persone e comunità per valutare fatti o avvenimenti. Un errore cognitivo, un automatismo che non permette a chi lo attua di prevedere la possibilità di interpretare la realtà in maniera aperta, oggettiva e sfumata. Il pregiudizio, un veleno a diffusione istantanea, è il nucleo concettuale della narrazione proposta da “Il diritto di contare”, film del 2016 di Theodore Melphis, che ha aperto la rassegna “Cineforum La Macchia 8.0: Profilo Femminile” dedicata alla decostruzione degli stereotipi di genere e alla storia del femminismo nazionale e internazionale.
I punti salienti della pellicola, l’impossibilità da parte della protagonista di usare bagni pubblici, pullman, utensili casalinghi all’interno di un ambiente sessista e razzista come quello della NASA negli anni ‘60, hanno veicolato una discussione estremamente densa riguardante la costruzione dei nostri pregiudizi e il dovere di approcciarsi al femminismo attraverso un’ottica intersezionale: una donna nera in un ambiente di uomini bianchi e razzisti, desiderosa di accedere a posizioni di potere attraverso la propria attitudine alle materie scientifiche, subisce una discriminazione maggiore. In che modo è possibile superare questi stereotipi? Da dove provengono e come si strutturano le nostre credenze?
Le ospiti presenti al dibattito, la dott.ssa Maria Rosaria Califano e la docente Giulia Savarese, entrambe parte della comunità accademica attraverso la gestione di ruoli di potere, riscontrano prima di tutto queste problematiche in una mancanza di educazione e di rappresentazione. All’interno dell’Ateneo, la maggior parte dei dipartimenti universitari sono gestiti da uomini, le commissioni interne agli organi apicali sono composte in maggioranza da uomini, la maggioranza delle cattedre sono occupate da uomini. La realtà universitaria è perlopiù declinata al maschile. Ed essere anche nera, ancor di più determina una forte esclusione da determinati ambienti. Secondo Giulia Savarese, docente presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia, ripensare un modello educativo è un’azione necessaria per migliorare la condizione femminile all’interno della società. Le immagini proposte del genere femminile sono altamente discriminatorie e antiquate rispetto ai passi in avanti che la collettività ritiene di aver compiuto. Ciò dipende, secondo la docente, dalla nostra tendenza ad affermare l’appartenenza ad un gruppo di riferimento, che crea sicurezza, abolisce la solitudine, rende la persona più forte e protetta. Chi è fuori dal branco -in questo caso le donne, soprattutto quando rivendicano la propria autonomia- perde protezione, sviluppa un’insicurezza di fondo. Colpevolizzarsi è un atteggiamento tipico delle donne, da sempre considerate programmate per l’accudimento e che difficilmente riescono a tenere in piedi una vita soddisfacente dal punto di vista lavorativo senza sviluppare sensi di colpa nei confronti della propria famiglia.
Il bias, afferma la Docente Savarese, è generato dal pregiudizio, prima del giudizio. Se le immagini proposte a bambine e bambini attraverso i libri di scuola, i prodotti cinematografici, i social, sono sessiste e razziste, verranno interiorizzate e riprodotte nella propria mente fino all’età adulta. Il dibattito in aula si sposta sulla necessità di comprendere gli atteggiamente reiterati dallo stesso genere femminile in una società patriarcale. Le donne presenti in aula hanno affermato di vivere con difficoltà la competizione all’interno di gruppi composti dallo stesso genere. Quanto può essere condizionato dalla cultura imperante questa sorta di combattimento? Quanto è parte di una possibile naturale predisposizione? Secondo la Professoressa Savarese, la domanda è estremamente complessa, ma le due questioni potrebbero essere interdipendenti. Se da una parte le donne sono molto più reattive nelle relazioni sociali, dall’altra è possibile che la società in cui viviamo, sempre a favore di un genere rispetto all’altro, possa renderle molto più propense al conflitto, all’impossibilità di fare gruppo, al dover soddisfare continuamente delle aspettative. Ci si chiede durante la discussione se un linguaggio inclusivo possa veicolare maggiore rappresentazione. Maria Rosaria Califano, a capo della Biblioteca dell’Università degli studi di Salerno, mostra quanto possa, secondo la sua opinione, essere fuorviante la discussione sul linguaggio di genere. Nella sua esperienza professionale, molto spesso la declinazione al femminile delle professioni, l’ha resa più distaccata dal ruolo che ricopre, che dovrebbe essere valido al di là di chi esercita la propria professione. Una rappresentazione maggiore all’interno dei luoghi culturali è possibile attraverso un ripensamento del sapere, che la governance delle Biblioteche dell’Università degli studi di Salerno tenta di attuare ogni giorno attraverso eventi e iniziative che portino all’interno della comunità accademica un punto di vista femminile. Punto di vista, secondo la Califano, che è diventato negli ultimi anni estremamente antiquato rispetto alle rivendicazioni delle ondate femministe precedenti.
La propagazione degli stereotipi ritorna e persiste nel tempo, e “Il diritto di contare” mostra con forza la difficoltà di potersi autodeterminare in un contesto societario che svilisce le persone in base al genere e all’etnia. Favorire l’emancipazione femminile è un atto necessario, ed è necessario spingerla in avanti attraverso un’educazione adeguata ai tempi che stiamo vivendo, inclusiva, improntata sulla creazione di un’immagine diversa da quella imperante. Un’immagine di donna libera, che mai come adesso, è diventata una questione di urgenza.
Manifestazione realizzata con il contributo dell’Università degli Studi di Salerno.
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