30 Aprile 2021
Yves Saint Laurent vorrebbe averli inventati. Giorgio Armani li definisce una rappresentazione di democrazia nella moda, Ugo Volli, semiologo, ne parla come di un “significante puro”, veicolo di messaggi, simbolo di un’epoca e di rivoluzioni generazionali. Amati, odiati, strappati, modificanti, scambiati, i jeans, o meglio, i “blue jeans” sono proprio questo: un significante della nostra espressività, un melting pot (ed è, combinazione, il nome a dir poco perfetto di una nota marca di jeans) di passioni, generazioni, storie, popoli e valori da promuovere e propugnare. Quello che si può fare con un jeans indosso è soggetto a plurali combinazioni di situazioni e narrazioni, rendendolo un capo di abbigliamento di cui, attualmente e ancora per tantissimo tempo, non si potrà fare a meno.
Ecco un elenco di tutto ciò che dovresti sapere o che potresti fare indossando un celebre paio di blue jeans, le possibilità offerte da questi pantaloni jolly sono davvero tantissime:
Con il jeans si lavora: perché i blue jeans originano proprio dall’esigenza di lavorare. L’idea di usare quel celebre “tessuto blu” fu di stampo genovese. Il suo uso era destinato alla creazione di sacchi per le vele delle navi o per coprire le merci del porto. “Blue Jeans”, probabilmente, era l’equivalente di “bleu de Genes”, blu di Genova. Un tessuto fustagno genovese, antesignano del denim, che divenne poi impiegato per confezionare pantaloni resistenti da marinaio. Fu Levi Strauss (non l’antropologo, ma il fondatore della Levis) a renderlo celebre producendolo in larga scala per minatori e cowboy: coprivano bene il vestiario e proteggevano dallo sporco.
Con il jeans si propone e si proponeva una nuova immagine: ed era un’immagine femminista. Il blue jeans è forse uno dei primi abiti da lavoro ad aver accomunato uomini e donne durante il 900. L’eroina in denim “Rosie the riveter” diede al blue jeans un’immagine pubblica, lo rese il capo d’abbigliamento operaio per eccellenza, quello che le donne indossavano per sostituire gli uomini andati in guerra per lavori a cui mai avevano avuto accesso. Sei milioni di donne americane in blue Jeans a fabbricare aerei, carri e cannoni.
Con il jeans si fa politica, rivoluzione, università e protesta: fu l’indumento simbolo delle rivolte globali studentesche del 68, l’antimoda per eccellenza, una divisa da protesta ed espressione della spinta egualitaria che caratterizzò quel decennio. Fu rivolta sessuale, aderente al corpo, sfidava il bigottismo mettendo in mostra le proprie forme.
Con un jeans puoi definire una generazione: è probabile che nessun individuo, dagli anni 50 in poi, ricordi un film senza dei jeans che rendevano un personaggio cinematografico iconico ed indimenticabile. Il Jeans è James Dean, Marlon Brando, Elvis, è cinema e rock. Adattabile a qualsiasi stile e movimento, potrebbe essere il simbolo di qualsiasi decennio di cui si ha memoria.
Con un jeans puoi guardare l’arte in modo differente: è innegabile, proprio per le sue origini italiane, che il jeans faccia parte della nostra storia artistica. Lo scultore genovese Pasquale Navone raffigurò alcuni dei suoi pastori con indosso dei blue jeans. Nel museo tradizionale di Arti e Tradizioni Popolari di Roma e nel Museo Civico Etnografico di La Spezia, sono presenti abiti popolari dell’epoca in denim. Inoltre, era usato da alcuni pittori come tela da dipinto. Esempio rappresentativo è la raccolta delle Tele della Passione site nel Museo Diocesano Genovese.
Eccoti 5 motivi per cui dovresti conoscere la storia dei jeans e le sue possibilità espressive.
Purtroppo, però, come ogni capo d’abbigliamento e opera d’arte che si rispetti, presenta dei limiti inequivocabili e molto difficili da scardinare. Ecco quindi un elenco di tutto ciò che con i blue jeans non si può assolutamente fare:
Un jeans non può impedire uno stupro.
Un Jeans non può impedire uno stupro.
Un Jeans non può impedire uno stupro.
Un Jeans non può impedire uno stupro.
Un Jeans non può impedire uno stupro.
Il Denim day è nato di recente. È di esportazione americana ma il motivo per cui esiste è italiano. Una sentenza della Cassazione del 1998 si espresse su un caso di denuncia di stupro sostenendo che un istruttore di guida può essere assolto dall’accusa di stupro se la ragazza indossa dei jeans aderenti perchè, essendo troppo stretti, non possono essere sfilati senza il consenso di chi li indossa. Ciò ha scatenato (fortunatamente) una reazione molto negativa da parte della società civile, italiana e non, comprese le parlamentari italiane che l’indomani si presentarono in Parlamento con dei jeans. Fino a Los Angeles dove nacque l’anno dopo il denim day, una giornata per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla violenza di genere. Da allora si è presa coscienza di un fenomeno latente e trasversale, quello del victim blaming che prova a puntare il dito sulla donna con le ormai note frasi “non doveva essere lì da sola”, “non dovrebbe camminare in quella strada di notte” e “non dovrebbe vestirsi così”. Tutti stereotipi che hanno il solo scopo di delegittimare la credibilità della donna e sostenere sempre l’aberrante considerazione che “se l’è andata a cercare”. No, invece. Nessuna donna si va a cercare una violenza. Ci si può ritrovare a camminare in strada da sola per molteplici motivi, ma nessuno di questi è mai stato o potrà mai essere quello di legittimare una violenza. Vale lo stesso per l’abbigliamento. Non ci sono abiti o percentuale di eleganza che possano inviare messaggi subliminali di violenza. È qualcosa di inconcepibile.
E no, nemmeno sbottonare volontariamente un paio di jeans o aiutare uno stupratore a sfilarli dalle proprie gambe, nemmeno questo dovrebbe impedire ad uno stupro di essere classificato come tale. Perché al di là della difficoltà di indossare un indumento e del tuo contributo a facilitare questa operazione, è necessario che l’opinione pubblica comprenda un elemento che per tutte le persone che hanno subito abusi sessuali, è scontato, un dato di fatto: molto spesso non si ha scelta. E il tema del consenso, della vergogna, della violenza sessuale non può essere ne decontestualizzato, ne ridicolizzato da quanto sia stretto un paio di pantaloni.