25 Maggio 2019
Avrebbero partecipato ad un evento di raccolta fondi e sarebbero tornati a casa. Si sarebbero svegliati l’indomani e avrebbero continuato a scrivere la loro storia. È quello che sarebbe successo se, nella notte del 26 Settembre del 2014, non fossero stati intercettati dalla polizia. Il Messico ricorda i fatti di quel giorno come la strage di Ayotzinapa dove sei studenti furono uccisi, venticinque feriti gravemente e quarantatré rapiti. La verità su quanto accaduto è ancora oggi sommersa da una fitta rete di depistaggi e menzogne che hanno condotto la Procura Generale a pronunciarsi sull’impossibilità al momento di far luce sul caso e a rimettere nelle mani di una commissione ad hoc il compito di rendere giustizia ai familiari degli studenti. I parenti dei giovani dispersi, per dar voce a quanto accaduto, si sono impegnati a portare la loro contestazione anche fuori dalle mura della città, raggiungendo altri 43 paesi e sfociando in una generale e più ampia manifestazione a New York che potesse lanciare un messaggio di aiuto, e contemporaneamente di contestazione, nei confronti degli Stati Uniti su quanto il Messico sta oggi vivendo. L’esperienza, a cui è stato attribuito il nome di Caravan 43, rappresenta non solo il ricordo degli studenti scomparsi cinque anni fa, ma la presa di coscienza da parte dei cittadini che nel paese in cui vivono è in vigore un vero e proprio meccanismo di malaffare, crimini, violazioni dei diritti umani, che ritraggono il Messico come uno Stato in cui chiunque può da un momento all’altro perdere la propria libertà.
Nel 2017 si contavano 35.000 soggetti scomparsi: un dato che, in realtà, non rappresenterebbe un’immagine fedele del fenomeno a causa dell’estesa sfiducia nei confronti delle istituzioni che scoraggia i cittadini a denunciare. A questo si aggiunge l’interesse dello Stato messicano a contenere il dato affinché si continui a far finta di non vedere e sapere. L’atteggiamento tipico di uno Stato complice. Tra gli autori delle sparizioni forzate compaiono, oltre ai membri delle organizzazioni criminali, anche autorità pubbliche, forze di polizia, locali e federali, in collusione con i membri delle organizzazioni criminali.
È accaduto anche a tre italiani. “Stavamo mettendo la benzina, ci ha fermato la polizia. Due moto e un’auto, ci hanno detto di seguirli. Stiamo andando, abbiamo due moto davanti e un’auto alle spalle” – sono le parole di Antonio Russo e Vincenzo Cimmino giunti a Tecalitlàn per cercare Raffaele Russo, già disperso. Ad oggi non si hanno più loro notizie.
Si chiamano casas de seguridad e sono descritte come dei campi di concentramento dove le persone, condotte lì in seguito ai sequestri, vengono schiavizzate. Professionisti, semplici cittadini, chiunque possa rivelarsi una risorsa per il traffico di droga e di organi. Le persone scompaiono e non vengono mai ritrovate. Quando questo accade, ci si imbatte in resti umani sepolti tra fosse comuni illegali. Tra il 2006 e il 2016 se ne sono contate almeno duemila. Tamaulipas, al confine con gli Stati Uniti, è considerato uno tra gli Stati più pericolosi dove, secondo la Procura Generale di Giustizia, fra il 2006 e il 2016 sono state localizzate 280 fosse comuni con 336 corpi, di cui solo 18 identificati.
Le organizzazioni criminali esercitano un controllo spaventoso sul paese che permette loro di sequestrare persone, impiegarle nelle proprie strutture per innumerevoli scopi e lasciare i corpi in fosse comuni disseminati in tutto il paese.
Chi resta ha imparato che l’unico modo che ha per scoprire se i propri cari sono ancora in vita è cercarli di propria iniziativa. C’è poca fiducia nei confronti delle forze di polizia che impiegano risorse non sufficienti per cercare i dispersi e che, anzi, potrebbero facilmente rivelarsi vicini a quelle stesse organizzazioni. Chi resta lo ha capito e sta agendo di conseguenza: sono nati comitati, associazioni, gruppi di persone che insieme si impegnano a trovare qualche stralcio di verità. Non solo dei propri cari. Ma di chiunque sia scomparso. Si imbattono in resti, tracce, indizi che seguono e che inseriscono l’uno accanto all’altro. Creando una memoria collettiva, identificando le aree in cui potrebbero esservi, o ci sono state, fosse comuni.
Le contestazioni organizzate in più paesi, attraverso l’iniziativa Caravan43, hanno rappresentato uno spartiacque nella storia dei desaparecidos messicani: ora si ha più consapevolezza di ciò che sta accadendo e la società civile ha imparato a dire a voce alta, e non più sussurrando, che non si sente sicura tra le strade della città e che vuole conoscere la verità sulla scomparsa dei propri cari. Quando sono state pubblicate le prime inchieste e udite le prime voci, ciò che di risposta si sentiva era “Yo Tembien”. “Anche io”: conoscere qualcuno che è scomparso, avere paura, essere preoccupati, voler reagire, attivarsi per cercarli. Yo Tembien.
Antonella Maiorino