4 Febbraio 2020
Siamo abituati ad associare le emozioni che proviamo soltanto ad un organo del nostro corpo: il cuore. Qualunque emozione, bella o brutta che sia, pensiamo che nasca e muoia lì e che il resto del corpo ne subisca semplicemente gli effetti.
Il lavoro di Jérémy Clapin, “J’ai perdu mon corps” – in Italia tradotto “Dov’è il mio corpo?”– adattamento cinematografico del romanzo Happy Hand di Guillaume Laurant, candidato agli Oscar 2020 come miglior film d’animazione, ci pone invece da tutt’altra prospettiva: e se ogni parte del nostro corpo fosse capace di provare le stesse emozioni che crediamo siano relegate solo al cuore? Non come una semplice propagazione della loro portata che perde il suo vigore man mano che si dilata lo spazio con l’epicentro, ma con la stessa profondità sensoriale. Il film d’animazione racconta una storia, a tratti simile a molte altre, ma lo fa attraverso il protagonismo non di un corpo o di una mente, ma di una mano che, portata via dal suo corpo, affronta un lungo viaggio fatto di paura, pericoli e ricordi per ritrovare il corpo attorno al quale ha sempre circoscritto la sua esistenza.
La mano, attraverso la quale si esplica uno dei nostri sensi: il tatto. È lei che impugna il microfono con cui gioca Naoufel da piccolo, è lei che tocca i tasti del piano che suona quando sogna di essere un musicista. Ricorderà ognuno di questi momenti. Li rivivrà mentre cercherà di proteggersi dalle minacce che imperversano le strade. Si ritroverà orfana e si sentirà sola come accaduto allo stesso protagonista corporeo della pellicola.
È Naoufel, il proprietario della mano, a vivere un’esistenza sgangherata, naturale conseguenza di un’infanzia tragica, di un trauma irrisolto e di un alienante senso di colpevolezza. Portapizze imbranato, il coprotagonista si barcamena tra le strade della città verso un inconsapevole ricerca di sé, tra strade grigie e nebulose. Un incidente maldestro e un impacciato tentativo di effettuare una consegna, lo porteranno ad incontrare la voce di Gabrielle, dipendente di una biblioteca. È l’udito, in questo frangente, a creare in Nafouel una nuova connessione con la realtà. “Come sarà la vista da lassù?”. La risposta della voce lo porterà a cambiare impiego, casa, vita. Il lavoro di apprendista falegname e il desiderio di scoprire Gabrielle lo riconnetteranno con le proprie mani, precedentemente prive di qualsiasi senso pratico, ma adesso capaci di immagazzinare esperienze nuove e ricreare un bagaglio di sensazioni ed eventi ex novo. Sarà un vecchio ricordo a provocare la tragica perdita della mano, che nel momento in cui, dopo numerose peripezie proverà a ricongiungersi con il resto del corpo, non verrà più riconosciuta dalle sue membra.
La vita passata, la prima sabbia che scorre tra le dita, il pugno che si stringe verso una mosca troppo veloce, la ciliegia su una torta, la superficie liscia di un mappamondo, tutte le esperienze tattili ricordate dalla mano di Nafouel sembrano non essere più compatibili con il suo proprietario, che ha abbandonato l’irrefrenabile e malato desiderio di crogiolarsi nel rimpianto per catapultarsi in una nuova esperienza fatta di speranze, romanticismo, e riscoperta. Senza una mano, gli rimane l’altra, che ricorda cose nuove ed è pronta, insieme a tutto il resto del corpo, a compiere un grande salto nel vuoto per ricominciare un nuovo capitolo.
Antonella Maiorino e Maria Vittoria Santoro