11 Gennaio 2013 L’11 Gennaio 1999, all’Istituto dei Tumori di Milano, moriva Fabrizio De André: l’uomo, il poeta, l’anarchico.
Su quest’ultima definizione che la critica tendeva a conferirgli, Faber rispondeva: “Anarchico l’hanno fatto diventare un termine orrendo. In realtà vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiduciale stesse capacità”. Nel 14° anno della sua scomparsa è ancora vivo il ricordo di colui che aprì la strada al cantautorato italiano, rompendo i dogmi della “canzonetta” nazional-popolare. Raccontare dell’artista genovese, è impresa ardua: sì rischia di perdersi in un materiale così vasto; fatto di canzoni, interviste piene di spunti interessanti, discorsi che amava iniziare con il suo pubblico ad ogni concerto. Per parlarvi del “mio Faber” ho deciso di farlo prendendo come riferimento la foto qui alla vostra destra. La ritengo perfetta perché è come se osservasse il Mondo con il suo sguardo.
La sua visione è fuori da qualsiasi schema convenzionale, mai banale, penetra nelle storie dei suoi personaggi: assassini, prostitute, trans, rom, vittime di guerra o di qualsiasi altro sopruso. Lo scopo è quello di dare vita agli ultimi, volendo comprendere in pieno i loro disagi, le cause che li hanno determinati, senza mai giudicare dalle conseguenze avutesi. Tutto ciò sempre utilizzando i canoni della poesia:questa è la rivoluzione DeAndreiana. Per racchiudere questo concetto si può citare la parte finale della celeberrima canzone La Città Vecchia:
“Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli
In quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori
lì ci troverai i ladri gli assassini e il tipo strano
quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano.
Se tu penserai, se giudicherai
da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni più le spese
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo.”
Il “paesaggio” raffiguratoci da De André può essere colto in ogni suo particolare: canzone per canzone fino ad avere uno spaccato su ciò che ci circonda: l’atrocità della guerra, gli addii e le ferite dell’amore, la fragilità degli ultimi, il finto perbenismo, l’arroganza e la cialtroneria dei potenti.
Un pensiero così profondo e così attuale, sembra avere relegato la figura di Fabrizio De André ad un eterno presente. Eppure un decennio e mezzo senza di lui è passato ma la sua eredità morale è ancora la voce ostinata e contraria delle anime salve sparse per il mondo.
Gian Luca Sapere