23 Settembre 2020
“A condannarlo a morte erano state le ricerche che stava conducendo sulla ricostruzione seguita al terremoto dell’80, le inchieste sul grande business degli appalti che aveva gonfiato le tasche dei politici, imprenditori e soprattutto camorristi. A condannarlo a morte furono infine quelle quattromila battute pubblicate sul Mattino del 10 giugno 1985, in cui Siani avanzava l’ipotesi che l’arresto di Valentino Gionta fosse il prezzo pagato dai Nuvoletta per evitare una guerra con il clan di Bardellino. Quell’articolo fu la goccia che fece traboccare il vaso: i clan non potevano più sopportare che un cronista alle prime armi rivelasse i loro patti, denunciasse i loro rapporti con il mondo della politica e si permettesse persino di farli passare per infami. La soluzione era lì, nero su bianco, ma non si ebbero né il coraggio né l’umiltà di vederla...”
–Adriana Maestro, Presidente dell’Associazione Culturale “Giancarlo Siani”.
Giancarlo Siani aveva da poco compiuto ventisei anni, quando il boss Angelo Nuvoletta e il capo di “Cosa Nostra” Totò Riina, lo classificarono come un elemento scomodo da togliere di mezzo, ordinandone l’omicidio. Ed aveva la stessa età, quel lunedì sera di settembre quando due assassini lo colpirono dieci volte in testa con due pistole Beretta di 7.65mm, mentre scendeva dall’auto, una Citroën Mehari distante pochi metri da casa sua, nel quartiere del Vomero. La mattina della sua morte, aveva telefonato all’allora direttore dell’Osservatorio sulla Camorra, Amato Lamberti, chiedendogli un incontro per parlare di alcuni argomenti che riteneva fosse più opportuno affrontare di persona. Discussione rimasta in sospeso perché non ha più avuto la possibilità di incontrarlo. Si ipotizza che potesse trattarsi di qualcosa inerente ad un libro su cui stava lavorando e di cui non sono mai state ritrovate le bozze. Un dossier dal titolo “Torre Annunziata: un anno dopo la strage”, in cui aveva raccolto notizie e foto inedite su ciò che avvenne il 26 agosto 1984, una pagina indelebile della storia di Napoli. Quel giorno, quattordici uomini, affiliati ai clan Bardellino e Alfieri, armati, scesero da un bus, rubato in Calabria che riportava la scritta “Gita Turistica”, e aprirono il fuoco nei pressi del Circolo dei Pescatori a Torre Annunziata. Attimi interminabili che si conclusero con 15 vittime: 8 morti e 7 feriti. L’obiettivo dell’attentato era quello di uccidere il capoclan Valentino Gionta, rimasto tra l’altro illeso, come punizione per aver violato accordi sugli interessi illeciti della camorra nell’area vesuviana. Un personaggio scomodo per nemici ed alleati, come successivamente lo avrebbe definito Giancarlo Siani nelle righe del famigerato articolo pubblicato il 10 giugno 1985.
A Giancarlo Siani non piacevano i giri di parole, soprattutto quando gli argomenti riguardavano le ingiustizie e i soprusi della camorra. I suoi articoli ne sono una testimonianza. Quelli che scrisse negli anni successivi al terremoto dell’Irpinia del 1980, ne sono un esempio. Nei suoi scritti, Siani senza censure portava a galla tutto il marciume prodotto da una politica complice della camorra, come quest’ultima allungava ripetutamente le mani nelle tasche del comune per appropriarsi dei soldi per la ricostruzione e ampliare i suoi imperi economici, traendo beneficio da un sisma naturale. Mentre i terremotati, che avevano perso praticamente ogni cosa, trascorrevano anni nei container in attesa di un aiuto. Una politica complice, come testimonia la singolare frase “Non posso farlo, ho la stampa addosso” pronunciata da un ex sindaco di Torre Annunziata, che alludeva proprio agli incalzanti servizi giornalistici di Siani, quando i clan gli chiedevano conto degli appalti pubblici. Frase che dà il titolo al libro “La stampa addosso – Giancarlo Siani, La vera storia dell’inchiesta”, edito da “Repubblica” e scritto dal magistrato Armando D’Alterio, colui che da pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Napoli individuò i mandanti e gli assassini di Siani, facendoli condannare in via definitiva all’ergastolo. Nel libro vengono raccontati tutti i segreti, i retroscena e il lavoro compiuto dalle autorità per dare un volto ed un nome ad ogni persona che prese parte all’omicidio.
Giancarlo Siani mise a nudo anche la vigliaccheria della camorra, che reclutava spacciatori e sicari tra i vicoli più dimenticati di Napoli, tra coloro a cui nessuno avrebbe concesso un’opportunità e che credevano che la criminalità organizzata fosse l’unica strada percorribile. È evidente quanto una persona così, che senza paura metteva nero su bianco ciò che altri preferivano non vedere, possa rappresentare una minaccia. Furono tanti gli articoli scritti da Giancarlo Siani, più di mille in pochi anni, e altrettanti ne avrebbe scritto se solo avesse potuto. Non più da giornalista precario, perché il direttore del giornale dove lavorava gli aveva comunicato il 19 settembre (giorno del suo compleanno) che la lettera di assunzione era pronta, mancava solo la sua firma che numerose volte aveva stampato all’inizio di ogni articolo.
Il 15 aprile del 1997 la seconda sezione della Corte d’assise di Napoli ha condannato all’ergastolo i mandanti dell’omicidio (i fratelli Lorenzo e Angelo Nuvoletta, e Luigi Baccante) e i suoi esecutori materiali (Ciro Cappuccio e Armando Del Core). In quella stessa condanna appare, come mandante, anche il boss Valentino Gionta. La sentenza è stata confermata dalla Corte di Cassazione, che però dispose per Valentino Gionta il rinvio ad altra Corte di Assise di Appello. Il 29 settembre 2003 si è svolto un secondo processo che l’ha di nuovo condannato all’ergastolo, mentre il giudizio definitivo della Cassazione lo ha scagionato per non aver commesso il fatto. Alla fine dei conti, Giancarlo e la sua famiglia hanno ottenuto giustizia. Anche se dopo anni, gli autori dell’omicidio sono stati arrestati e condannati a scontare una pena a vita. Ma Giancarlo era di più: lui credeva che le parole potessero cambiare la realtà della città che aveva imparato ad amare e che il 13 dicembre 2019 gli ha concesso la cittadinanza onoraria. Lui, come tutti i cittadini onesti di Torre Annunziata che lo vedevano passeggiare tra i vicoli, sperava che la camorra potesse essere combattuta e vinta. Ed è senz’altro così, altrimenti mai avrebbe avuto bisogno di mettere a tacere la penna scomoda del giornalista.
L’obbligo etico di doversi mobilitare per cambiare la realtà che tutt’oggi viviamo, adesso appartiene a coloro che hanno letto gli articoli di Giancarlo Siani e che lo ricordano ogni anno. A tutte le persone che riconoscono il suo lavoro e l’importanza di un giornalismo serio che sappia interrogarsi profondamente su quanto accade nel paese. Un dovere civico, quello di opporsi al potere della criminalità organizzata per cercare di smantellare, pezzo per pezzo, a suon di denunce e sentenze, il sistema di malaffare generato e coltivato dalle organizzazioni criminali. Bisogna combattere utilizzando la nostre armi più potenti: la legalità e la cultura. Come in molti, tra cui Giancarlo Siani, ci hanno insegnato. Non accettando ricatti o scorciatoie, studiando sempre e senza lasciare nessuno indietro. Resta a noi, far capire a chi sostiene il sistema malavitoso che le parole, lo studio e la cultura possono essere armi in grado di cambiare la realtà.
Annaclaudia D’Errico