25 Gennaio 2023
Sono trascorsi sette anni dal giorno in cui si persero le tracce di Giulio Regeni. Conosciamo gran parte di ciò che gli successe. Il rapimento, le torture e l’uccisione. Conosciamo in parte i motivi e in parte chi ha commesso quelle atrocità. Ciò che ancora non si conosce è l’inizio e la fine di un processo che non ha mai avuto luogo, quello in cui i colpevoli di quelle atrocità scontano una pena adeguata al loro delitto. Sappiamo che l’Egitto si è opposto alla ricerca della verità, e che l’Italia continua a non fare abbastanza. Conosciamo il sistema autoritario in cui Giulio Regeni cadde, e in cui ora vi è Patrick Zaki, e la sua passione per il suo lavoro. Continuiamo a narrare la storia di quei giorni, di Giulio Regeni, di Patrick Zaki perché serve conoscere tutta la verità, non solo una parte, e serve che l’azione non resti impunita e che, alla fine, i diritti vengano rispettati.
Sospeso: è il termine che viene maggiormente associato alle ricerche riguardanti gli aggiornamenti sul caso di Giulio Regeni. Questa definizione deriva dallo stato del processo aperto in Italia contro gli agenti 007 egiziani Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati di sequestro di persona, lesioni e concorso nell’omicidio del ricercatore ucciso nel 2016 in Cairo. Le indagini della procura di Roma si erano concluse nel 2020, anche grazie ad una testimonianza chiave di un uomo che ha lavorato per 15 anni nella sede della National Security; la stessa dove dichiara di aver visto Giulio Regeni nella stanza 13, posta al primo piano della struttura destinata alla detenzione degli stranieri sospettati di aver tramato contro la sicurezza nazionale. Delle atrocità che si sono susseguite tra quelle mure, le abrasioni e i segni di tortura riportati sul corpo di Giulio ne sono un’amara dimostrazione. La dichiarazione di quel testimone che avrebbe dovuto rappresentare “un primo passo verso la verità” non è bastata. Il rinvio dell’udienza disposta per il 14 ottobre 2021, rimandata a causa dell’irreperibilità degli imputati, è stato il primo di una lunga serie. L’ultima sospensione risale ad ottobre 2022, dopo che l’ennesima sollecitazione del 6 ottobre alle autorità egiziane sul fornire il domicilio dei quattro indagati è caduta nel vuoto. La prossima udienza è stata fissata per il 13 febbraio di quest’anno. Per la famiglia Regeni neanche lo stato italiano è esente da colpe, contro quest’ultimo hanno presentato un esposto nel 2021 per impedire la vendita di armi in paesi che violano i diritti umani (tra cui l’Egitto) e su cui non è stato messa in atto alcuna manovra. Una collaborazione concreta da ambo le parti, in primis dalle autorità egiziane, è necessaria per permettere al processo di andare avanti e ottenere una giustizia attesa da anni, ma le azioni perpetrate (depistaggi, bugie, insabbiamenti) da sette anni a questa parte vanno nella direzione opposta.
Negli anni che si sono susseguiti dal 2016 in poi è stata aperta una voragine sulla violazione dei diritti umani in determinati paesi e della battaglia per la rivendicazione portata avanti da organizzazioni come Amnesty International. L’export di armi portato avanti dall’Italia non riguarda solo l’Egitto, ma include paesi come Qatar, Turkmenistan e Arabia Saudita. Paesi in cui molte libertà fondamentali riportate nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo non esistono e in cui le condanne (inclusa quella di morte) vengono spesso applicate senza un regolare processo. Torture, detenzione ingiustificate, oppressioni, uso della forza da parte delle agenzie militari verso attivisti/e sono praticate in maniera consueta e nel silenzio complice delle autorità governative preposte. In Egitto, quello di Regeni non è un caso isolato. Un altro esempio riguarda la vicenda legata alla detenzione di oltre un anno e mezzo dello studente Patrick Zaki, attualmente scarcerato ma su cui incombe ancora un processo per capi d’accusa quali: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione, diffusione di false notizie, propaganda per il terrorismo. Anche sul suo corpo, come su quello di Regeni, sono state trovate tracce di scariche elettriche e colpi inflitti dalle autorità egiziane in cerca di una confessione forzata. L’ennesimo rinvio del suo processo è stato annunciato a novembre 2022, in cui è stata resa nota la data della nuova udienza prevista per il 28 febbraio 2023.
La famiglia Regeni, in prossimità dell’anniversario del decesso del proprio figlio, parla di “mantra”. Questa ripetizione sterile e alienante di parole superficiali, riguarda la fantomatica collaborazione egiziana promossa senza soluzione di continuità dalle autorità politiche da sette anni a questa parte. Una collaborazione mai esistita e non voluta, procrastinata in favore di cooperazioni amichevoli di altra natura, che rappresentano la volontà silente di non occuparsi della vicenda in maniera risolutiva in favore di cooperazioni economiche e rapporti di buon vicinato. Nonostante le vicende Regeni/Zaki scuotano ogni anno l’opinione pubblica nazionale e internazionale, Italia ed Egitto rafforzano la propria relazione, investono in risorse energetiche e mantengono ad oltranza un equilibrio geopolitico poco solido. Dalle dichiarazioni emerse negli ultimi mesi dalle autorità politiche in carica, la promessa di portare alla luce la verità sul caso Regeni si rivela nuovamente inconcludente. Ogni amichevole stretta di mano e cordialità con l’Egitto rappresenta per la famiglia Regeni un attacco al proprio dolore, per la cittadinanza sensibile al tema e per le persone strettamente coinvolte nelle diseguaglianze che questi accordi creano, una sferzata alla loro libertà. Quell’attacco è anche politico. Il 25 gennaio è da ormai sette anni soltanto un rituale. I social media si tingono di giallo, raccontano quella storia, sempre la stessa, in attesa di verità e di giustizia. Il rito deve evolversi, cambiare. Solo una presa di posizione politica chiara e priva di mediazione può contribuire ad interrompere il mantra.