14 Giugno 2018
Cosa accade quando ci si sente esclusi dalla stessa società di cui si fa parte e in cosa consiste il fenomeno dell’esclusione sociale? Per comprendere a pieno le caratteristiche e i fattori che ne sono alla base ci siamo rivolti alla prof.ssa Enrica Amaturo, Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia e, in passato, membro della Commissione d’Inchiesta per l’esclusione sociale.
Data la sua esperienza in tale ambito, come definirebbe l’esclusione sociale?
Per esclusione sociale si intende quel fenomeno che prevede il sistematico svantaggio di gruppi sociali e che impedisce a questi l’accesso alle risorse necessarie che consentono loro un pieno diritto di cittadinanza.
Lei ritiene che ci siano parti di popolazione maggiormente predisposte all’esclusione?
Purtroppo, si tratta di un fenomeno dalla portata enorme e che non è circoscrivibile a categorie o a gruppi sociali ben definiti. Basti pensare ai dati sulla povertà che l’ISTAT ci fornisce annualmente e che stimano il 12,5% circa di popolazione italiana in condizione di povertà relativa. Inoltre, se pensiamo che nel Mezzogiorno, laddove risiede 1/3 della popolazione italiana, sono concentrati i 2/3 dei poveri, possiamo effettivamente comprendere la gravità della situazione.
Quali sono i principali fattori che determinano l’esclusione sociale?
La disoccupazione è senza alcun dubbio uno dei fattori che maggiormente influenzano lo sviluppo del fenomeno. I tassi di disoccupazione sono infatti molto diversificati per regione e per residenza geografica e anche in questo caso il Meridione risulta essere l’area in maggiore situazione di difficoltà, senza attuare distinzioni tra uomini, donne o giovani. Altro fattore importante da prendere in considerazione è la dimensione familiare poiché, mentre prima il fenomeno interessava soprattutto anziani soli, ora invece riguarda anche nuclei familiari numerosi. Infine, la crisi economico-finanziaria che ha colpito l’Italia tra il 2007 e il 2008 ha contribuito ad aggravare uno scenario già precario.
È possibile contrastare il fenomeno e in che modo?
Sicuramente. Alcuni tentativi sono stati fatti nel 2000 grazie alla legge Quadro, con la quale sono state proposte delle trasformazioni significative al nostro sistema di Welfare e anche una prima sperimentazione di reddito minimo di inserimento, che poi non è stata portata avanti e valutata. Sfortunatamente però, la legge è rimasta attuata solo parzialmente e ciò ha fatto sì che la situazione non migliorasse. In aggiunta, a rendere il panorama ancora più complesso ha contribuito la riforma delle pensioni della legge Fornero.
In tale contesto, quanto può essere determinante il ruolo di scuole e famiglie?
La famiglia, soprattutto nell’area del Meridione, resta l’unica risorsa disponibile ai giovani in cerca di una prima occupazione, ma è anche vero che la stessa famiglia può, a lungo andare, costituire un vero e proprio vincolo per il giovane che difficilmente riesce a mettere in atto misure in grado di permettergli la fuoriuscita dalla condizione di povertà. Per quello che riguarda la scuola invece, possiamo dire che il suo ruolo è scarsamente determinate. Sappiamo bene infatti che è molto diffuso il fenomeno della fuga dei cervelli, per cui ragazzi preparati e con un buon livello di istruzione preferiscono spostarsi all’estero o, tuttalpiù, nel nord Italia, soprattutto perché, come dicevo prima, la situazione del sud è considerevolmente più arretrata. Tra le possibili soluzioni, si potrebbe proporre un welfare aziendale, o comunque organi di sostegno ancorati alle aziende.
Secondo Lei, ci sono attualmente i presupposti per un miglioramento o si prospetta uno scenario futuro peggiore? Sicuramente il miglioramento bisogna volerlo. Sarebbe necessario ragionare nuovamente sul tema del Welfare che al momento risulta particolarmente assente dall’agenda politica, fatta eccezione per la proposta del Movimento 5 Stelle del reddito di cittadinanza.
La Commissione d’Indagine per l’esclusione sociale, di cui Lei faceva parte, è stata sciolta nel 2012 e quelli che erano i suoi incarichi sono stati affidati alla Direzione Generale per l’inclusione e le politiche sociali. Lei riscontra una linea di continuità tra quello che è stato il vostro operato e quello che è invece il lavoro svolto attualmente?
Purtroppo non è possibile constatare tale continuità, in quanto non esiste più un organo specifico che si dedichi unicamente al tema dell’esclusione e la direzione generale non svolge più quel lavoro conoscitivo e di indagine che era compito della Commissione.
Lei quindi ritiene che permettere alla Commissione di continuare il suo lavoro potesse essere una risorsa?
Sarebbe stato un chiaro segnale di importanza e di rilievo dato al tema, mentre, come ho già detto prima, la questione del welfare è completamente scomparsa dalla riflessione.
Alessia Turi
Tratto dal bollettino informativo “Con-fini comuni“.