31 Dicembre 2018
Attorno al tavolo adibito per i veglioni del 24 e del 31 Dicembre non è difficile riconoscere chi, tra i commensali, è lo studente: a otto anni è quello che intrattiene i parenti con una poesia, a tredici quello che si interroga su quale istituto superiore sia meglio iscriversi, a diciotto quello che deve affrontare la maturità, a ventitré quello che è in procinto di laurearsi e a ventisette quello che deve associare un impiego agli anni trascorsi a studiare.
Generalmente, in Italia, l’attività di studio viene vista come una fase momentanea della vita. Lo si fa durante gli anni dell’obbligo, il tempo che si diventa maggiorenni, che si prende un pezzo di carta, e poi si può iniziare a lavorare. Come se studiare fosse solo un presupposto per qualcosa di più grande , di meglio, che è portare a casa uno stipendio. In realtà noi, che apparteniamo a questo grande e trasversale groviglio di persone, sappiamo bene che non è così. Che studiare non è un capriccio né qualcosa che si fa oggi e che si smette di fare domani. La figura del ricercatore accademico, ad esempio, è contemporaneamente sia la dimostrazione tangibile che la conoscenza non è qualcosa di statico e immutabile, e quindi da coltivare solo per un limitato periodo di tempo, sia la rappresentazione della difficoltà per lo Stato Italiano a valorizzare chi sceglie di perseguire lo studio analitico di una branca del sapere.
Ma la sterilità del sistema educativo italiano ha radici ben più profonde, che partono dagli istituti scolastici. Il metodo qui imposto, ormai da tempo, è quello di strutturare il contenuto dell’esperienza scolastica attorno a valutazioni. Lo studente che non acquista sufficiente dimestichezza con una materia , ha solo un voto basso. Viene solo bocciato. Non viene recuperato, non viene aiutato. Non viene stimolato, se non con il solito “è intelligente ma non si applica”. Sembra che tutti abbiano dimenticato che in realtà il primo compito della scuola è quello di insegnare, e poi valutare. E poi dare voti. Non si dovrebbe avere paura di andare a scuola impreparati, perché è esattamente lì che u dovrebbero acquisire nozioni e non avere paura di sbagliare.
L’università, allora, sarebbe dovuta essere un luogo di riscatto per chi ama e vuole studiare ma solo non si riconosce in un sistema pressante, come quello scolastico, che ti chiede di conoscere la matematica il lunedì e la letteratura italiana il giovedì, che ti dice che di un autore puoi approfondire questo aspetto e non un altro. Che, in sintesi, circoscrive e incanala il tuo sapere. Gli anni universitari sarebbero dovuti essere quelli in cui l’approfondimento, la riflessione, il prendersi del tempo per sviscerare le nozioni, sarebbero stati premiati. Ma ormai sappiamo che non è così. Che l’università oggi è diventata solo un luogo in cui bisogna fare presto gli esami e annunciare a Natale che ci si è laureati in tempi brevissimi, giusto il tempo di immatricolarsi, citare qualcuno in una tesi e via. Di nuovo al mondo. Conta solo questo. E nient’altro. Al punto che sono sempre di più gli studenti che vivono il mondo accademico con un profondo malessere scaturito da un incessante sentirsi sotto esame da docenti, genitori e colleghi.
Pretendere tanto, offrire nulla: potrebbe essere questo il motto del sistema scolastico italiano nei confronti degli studenti. Ci hanno chiesto di essere eccellenti in tutte le materie, ma ci hanno lasciato crescere in aule fatiscenti (ma con il crocifisso). Ci hanno chiesto di essere maturi ma ci hanno sollecitato a competere l’uno con l’altro e non ad unire le forze. Hanno preteso che fossimo sempre puntuali, senza chiedersi come saremmo ogni giorno arrivati in aula. Ci hanno parlato di un’istruzione gratuita e di tasse. Ma nessuno dice mai quanto costino i libri. Ci vogliono dinamici, idonei a lavori di gruppo, ma non hanno mai pensato di darci delle aule (scolastiche, universitarie) dove sollecitare lo studio di gruppo che potesse essere anche uno stimolo a confrontarsi liberamente su temi e materie oggetto di studio. Ci dicono che dobbiamo fare presto, ma ci tolgono le borse di studio. Ci chiedono di essere perfetti, senza darci la possibilità di essere liberi.
Siamo studenti. Siamo il Quarto Stato del nuovo millennio. Riconosciuti all’estero per la nostra preparazione e il nostro (nostro e non vostro) impegno. A tratti autodidatti e sempre pronti a far fronte alle difficoltà tutte italiane.
L’augurio per il nuovo anno è che gli studenti siano sempre più consapevoli della loro importanza in questo paese. E che col tempo diventi sempre meno difficile riappropriarsi dei propri spazi e autodeterminarsi. È l’augurio di Asinu che anche nell’anno nuovo proverà ad essere la voce degli studenti. La voce di questo Quarto Stato di cui si sente parte.
La Redazione