17 Novembre 2018
Il popolo è una componente fondamentale dello Stato. Sulle sue difficoltà vanno plasmate le istanze politiche e le manovre economiche volte ad un assestamento positivo della sua condizione. Tutte le volte che questo non accade, il popolo reagisce. In svariati modi, in svariati tempi. E quando crede che davvero non ci sia più margine di miglioramento, può persino prendere la più difficile tra le decisioni: andare via.
Sta accadendo in America, dove il 13 Ottobre un gruppo di persone è partito da San Pedro Sula (in Honduras) per addentrarsi in Messico e raggiungere gli Stati Uniti. Durante il percorso, km per km, in molti si sono uniti al gruppo originario che alla fine ha superato le migliaia di persone. Da un semplice pugno di uomini sono diventati una carovana. Con uomini, donne e bambini. La modalità con cui hanno attraversato le terre non è così bizzarra: parte innanzitutto dall’esigenza di voler affrontare un percorso, così lungo, in sicurezza. Senza essere attaccati, derubati, molestati. Senza che nessuno possa approfittare di un loro momento di debolezza. I paesi da cui parte il maggior numero di migranti sono tre: Honduras, El Salvador e Guatemala. E la loro partenza simultanea, la loro unione, il loro camminare insieme svolge anche un’altra funzione fondamentale: denunciare le gravi condizioni di vita dei paesi da cui stanno andando via. Un messaggio chiaro e diretto che portano con sé e di cui sono testimoni.
I tre paesi dell’America Centrale sono infatti regioni con notevoli problemi di povertà, criminalità e corruzione. Nella lista, redatta dall’ONU, dei venti paesi più pericolosi al mondo, al primo posto c’è l’Honduras, al quarto e quinto ci sono rispettivamente El Salvador e il Guatemala. L’Honduras in particolare è lo Stato con il più alto tasso di omicidi nel mondo, con il verificarsi di una morte violenta ogni 74 minuti. San Pedro Sula, il secondo paese più importante dopo la capitale, è anche la città più pericolosa del mondo dove ogni anno si registrano 169 omicidi ogni 100mila abitanti. Sempre secondo l’ONU, in questi paesi muoiono più persone che nel territorio bellico dell’Afghanistan. Gli autori di questa violenza sono le gang insediatesi per promuovere e controllare il traffico di droga. L’illegale commercio di sostanze stupefacenti prima si concentrava soprattutto via mare ma, in seguito alle operazioni della DEA (l’agenzia che in America si occupa della lotta al traffico di droga) e alla conclusione delle guerre civili in Guatemala (1996) e in El Salvador (1992), i trafficanti hanno spostato le loro operazioni via terra controllando principalmente questi tre paesi. Il concentramento, nei confronti di questi territori, è dovuto anche alla politica degli Stati Uniti che, in diversi modi, ha provato a contrastare il traffico di droga nel Messico. L’illegalità, impedita via mare e in Messico, si è dunque concentrata nei paesi dell’America Centrale dove non ha lasciato alcuno spazio di vita, tranquillità e progresso alla popolazione civile. Ad oggi, infatti, si stima che tra i salvadoregni, gli honduregni e i guatemaltechi ad essere entrati nel giro di queste operazioni illegali siano circa 70.000.
I protagonisti della carovana umana sono quelli che non si sono piegati alla criminalità. Sono quelli che, attraverso questo grande spostamento in massa, stanno denunciando il grado di invivibilità dei loro paesi d’origine. Ne denunciano anche la responsabilità degli Stati Uniti, i quali si sono tanto impegnati nel ripulire il mare e il Messico dai traffici illeciti senza cercare di risolvere a monte il problema e condannando definitivamente i paesi dell’America Centrale.
La Carovana, partita il 13 Ottobre, è iniziata ad arrivare al confine tra Messico e Stati Uniti. Ad accoglierli ci sono reticolati, barricate, filo spinato e soldati. E, per chi ce la fa, la separazione immediata dai propri cari e persino dai propri bambini, anche piccolissimi, che vengono rinchiusi in vere e proprie gabbie in attesa che le autorità esaminino le richieste. Ad oggi si contrano tra i 6.000 e gli 8.000 nuclei familiari separati. Una vera e propria prigione per i bambini, una vera e propria politica dell’anti-tolleranza voluta da Donald Trump, violazioni del diritto internazionale che Amnesty International ha più volte denunciato. Tuttora, dal 2017, le autorità statunitensi continuano a imporre la detenzione obbligatoria e a tempo indeterminato dei richiedenti asilo. Un’azione politica del tutto sconsiderata, che non tiene conto dei motivi per i quali le persone hanno preferito affrontare l’anti-tolleranza piuttosto che restare nelle loro case. Un atteggiamento profondamente ingiusto che non considera il valore dell’autodeterminazione dei popoli, della loro libertà, e del coraggio che hanno dimostrato nel non scendere a patti con la criminalità organizzata. In questo grande movimento popolare, che ha già avuto modo di chiarire di non volersi arrestare, c’è tutto il buono non solo dei salvadoregni, degli honduregni e dei guatemaltechi, ma di tutti i cittadini del continente. In perfetta attuazione di quanto contenuto nella dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 dove si legge che la ricerca della felicità è un diritto inalienabile. L’amministrazione americana dovrebbe cioè capire bene una cosa: il sogno americano è di tutti, anche dei migranti.
Antonella Maiorino