2 Luglio 2020
A inizio giugno, dopo due mesi dall’annuncio ufficiale, è stata lanciata l’app Immuni. Durante il periodo di lockdown è stato uno degli argomenti di cui più si è discusso sui social, grazie anche alla stampa che con la comunità scientifica ha espresso molti dubbi riguardo l’app. L’idea di un’applicazione per dispositivi mobili volta a contenere la diffusione del covid-19 arriva dall’Asia, dove Corea del Sud e Singapore hanno utilizzato delle applicazioni per dispositivi mobili per tracciare e contenere il virus. Nonostante la vicinanza (nel caso della Corea del Sud il confine) con la Cina, paese dal quale si ritiene sia partita la diffusione del virus, entrambi i paesi sono usciti presto dalla fase di emergenza. L’applicazione coreana, chiamata “Corona 100m”, permette agli utenti di sapere quali aree sono state frequentate da persone positive al virus e se hanno avuto contatti ravvicinati con esse. In questo modo è stata data possibilità ai cittadini di muoversi liberamente e non bloccare il paese.
L’Italia, così come altri paesi occidentali, già a marzo ha iniziato a studiare lo sviluppo di un’applicazione sul modello coreano per poter contenere la diffusione senza perpetuare il blocco nazionale. La società individuata dal governo per lo sviluppo dall’app è la Bending Spoons, con sede a Milano e gestita da cinque giovani ragazzi. La società si è distinta negli ultimi anni grazie alla crescita esponenziale dei download delle proprie applicazioni per dispositivi mobili, e di conseguenza anche del fatturato. Fin dal primo annuncio sull’app da parte del governo molti sono stati i dubbi sollevati riguardo alla privacy dei cittadini, su come i dati personali e sensibili degli utenti dell’app sarebbero stati raccolti e conservati. La soluzione individuata dalla società e dal governo prevede l’utilizzo della tecnologia bluetooth, che opera solo a breve distanza: in pratica se io scarico l’app, il mio dispositivo invierà continui segnali, e le interazioni con altri dispositivi attivi nelle vicinanze saranno salvate solo nella memoria del mio dispositivo e in forma codificata. Solo nei casi in cui il proprietario di un dispositivo con cui ho avuto una connessione comunichi all’app che è risultato positivo al tampone per il covid-19, o io stesso risulti positivo e lo comunichi all’app, i dati saranno prelevati dal dispositivo, e saranno inviati a dei server centrali in forma anonima o pseudo-nimizzata. I server di Immuni provvedono ad inviare una notifica agli utenti con cui il dispositivo della persona positiva si è connesso. Inoltre i dati resteranno nei server solo finchè saranno utili e in ogni caso non oltre la fine del 2020, e non potranno essere utilizzati per finalità diverse da quelle dichiarate.
Le questioni sulla privacy non si concludono qui: Apple e Google stanno implementando le funzioni dei loro sistemi operativi, rispettivamente Ios e Android, utilizzati sulla quasi totalità dei dispositivi mobili, e ci si chiede se questi non usufruiranno dei dati raccolti; inoltre si teme per i dati sensibili conservati nei server, dato che è stato dimostrato che anche se codificati, anonimati o pseudo-nimizzati, si può risalire al dispositivo da cui arrivano. Nonostante l’impegno che gli sviluppatori e la squadra di governo hanno messo nel progetto, il fallimento dell’app Immuni, così come quello di applicazioni simili in altri paesi, è dato per certo da gran parte della comunità scientifica: è necessaria una copertura di almeno il 60% della popolazione per avere un’utilità: un obiettivo utopico. Questo tipo di applicazione ha avuto efficacia in paesi dell’Asia che hanno ordinamenti giuridici molto diversi dai nostri, in cui la privacy del singolo cittadino può essere annullata per finalità di tutela della salute pubblica, dove l’applicazione è stata resa obbligatoria per tutti, e soprattutto dove sono stati effettuati tamponi di massa alla maggior parte della popolazione. In Italia non è stato ancora chiarito neanche come si svolge l’iter per le persone che ricevono la notifica di contatto, dato che non se ne potrà conoscere l’identità. Nel nostro paese, così come in Francia e nel resto dell’Unione Europea, le regole comunitarie a tutela della privacy impediscono che l’applicazione sia obbligatoria, ma in ogni caso anche se la copertura fornisse un campione significativo, ciò non sarebbe sufficiente a convivere con il virus, a causa di una carenza fondamentale che si è registrata dagli albori dell’epidemia: la mancanza di tamponi.
Martina Bianchi
Tratto dal bollettino informativo “Prova da sforzo“.