14 Gennaio 2023
Da ormai cinque mesi la Repubblica islamica dell’Iran non conosce più la quiete, rendendosi protagonista di manifestazioni quotidiane che si svolgono nella maggior parte delle province e su cui la comunità sembra non mostrare segni di cedimento. Una risposta così intensa e prolungata da parte della popolazione non si verificava dalle proteste iniziate il 15 novembre 2019 e finite il 16 luglio 2020 a causa dell’aumento dei prezzi del carburante dal 50% al 200%. Stavolta, però, la tematica che ha innescato la serie di dissensi è quanto più lontana da ragioni economiche e riguarda un argomento ispido per i/le cittadini/e: la legge sull’obbligo dell’hijab e, più in generale, i diritti e le libertà delle donne nel paese islamico.
Tutto ha inizio con la morte di Mahsa Amini, ventiduenne arrestata a Teheran il 13 settembre 2022 dalla polizia religiosa (o morale) con l’accusa di non aver indossato correttamente il velo. Inizialmente, al fratello era stato riferito che lei sarebbe stata scortata per seguire un corso su come posizionare bene l’hijab per poi essere rilasciata al massimo dopo un’ora. L’epilogo è stato nettamente diverso. La famiglia la rivede distesa su un letto d’ospedale, in coma farmacologico e con lividi ed ematomi sul volto, e il 16 settembre il suo cuore cessa di battere. La polizia tenterà di insabbiare l’accaduto affermando una scarsa salute della ragazza che ha causato in prima ipotesi un infarto, poi una malattia pregressa decretando il tutto come un’incidente. L’opinione pubblica, il popolo islamico e i familiari di Mahsa però non hanno nessun dubbio: c’è ben poco di accidentale nella sua morte; Mahsa è vittima di un sistema arcaico, misogino e violento.
Il caso di Masha è stato reso pubblico da Niloofar Hamedi, cronista del quotidiano progressista “Shargh”. Della giornalista, arrestata il 22 settembre e sottoposta all’isolamento, non si hanno più tracce. Questo non è bastato a fermare il movimento di proteste che ormai dilagano per tutto il paese. “Siamo tutti Mahsa, hai lottato e lotteremo anche noi”, è uno dei tanti slogan che accompagnano le voci dei manifestanti che hanno coinvolto più di 161 città. Proteste alle quali il regime ha deciso di rispondere con una dura repressione anche tramite l’utilizzo di gas lacrimogeni e colpi d’arma da fuoco sulle folli. Secondo l’Human Rights Activists News Agency, organizzazione che promuove la difesa dei diritti umani in Iran, finora sarebbero 520 i morti fra i manifestanti – di cui 70 bambini/e – mentre più di 19mila sarebbero stati arrestati.
In prima linea ci sono soprattutto le donne alle quali i diritti umani e le libertà fondamentali vengono lesi dai tempi della rivoluzione islamica nel 1979. Anno in cui la monarchia è stata sostituita dalla Repubblica Islamica Sciita che fonda la sua costituzione sulle basi della legge della Sharia e riduce in larga misura le libertà delle donne. Possono svolgere diverse mansioni e lavori, a patto che si coprano i capelli con un l’hijab e che indossino abiti lunghi e larghi per mascherare la propria figura. Coloro che non rispettano questi dettami, possono essere condannate alla fustigazione o ad una pena fino a 60 giorni di carcere. La legge è stata rafforzata dall’attuale presidente Ebrahim Raisi che ad agosto 2022 ha introdotto una norma secondo la quale le donne che pubblicano le loro foto senza l’hijab sui social network sono private di alcuni diritti sociali per un periodo compreso tra sei mesi e un anno, come l’ingresso negli uffici governativi, nelle banche o l’utilizzo dei mezzi pubblici.
Nel 2005 viene istituita la polizia morale (Gasht-e Ershad), parte delle forze ufficiali dello Stato, con il compito di far rispettare il codice di abbigliamento imposto alle donne. I membri sono presenti soprattutto nelle università iraniane per controllare l’abbigliamento e il comportamento delle persone. L’organo paramilitare è conosciuto e temuto dai/dalle cittadini/e islamici per la propensione all’uso della forza e a metodi poco ortodossi, come è stato riportato anche da alcuni testimoni nel caso di Mahsa Amini che avrebbero assistito ad una serie di percosse nei confronti della ragazza. Azioni condannate da Javaid Rehman, relatore speciale delle Nazioni Unite, dal ministero degli Esteri francese e dal segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken, perché considerate un segno della diffusa violazione dei diritti umani in Iran.
Il clima di rabbia e frustrazione attraversa ogni confine. A fine ottobre 2022, 80mila persone sono scese in strada a Berlino per chiedere l’inasprimento delle sanzioni internazionali contro il regime iraniano e scandendo lo slogan “donne, vita e libertà”. Più di recente, l’8 gennaio molti iraniani che vivono in Italia si sono riuniti davanti l’ambasciata a Roma, chiedendo “di isolare completamente il governo della Repubblica Islamica, sia a livello economico e politico”. Questa è solo l’ultima di una serie di proteste che si sono registrate in oltre 150 città di tutto il mondo. Oltre agli slogan contro il governo iraniano, sono diventati simboli della lotta il taglio di ciocche di capelli e il dare fuoco all’hijab, entrambi messaggi espliciti contro lo standard di femminilità imposto dal regime. In particolare, l’atto di tagliarsi i capelli in Iran viene praticato durante gli eventi caratterizzati da rabbia e sconforto. Il gesto è diventato virale sui social attraverso l’hashtag #HairForFreedom, a cui hanno preso parte numerose personalità di spicco come la deputata svedese Abir Al-Sahlani Juliette Binoche, Charlotte Gainsbourg, Claudia Gerini e Belén Rodriguez.
L’iniziativa è stata cruciale anche per un altro motivo. Il 19 settembre il governo iraniano ha deciso di causare quello che è stato chiamato un Black out delle comunicazioni, bloccando l’accesso servizi di internet in modo da impedire la divulgazione di immagini e video delle proteste. Ciò ha richiamato l’attenzione degli Anonymous, noto gruppo di hacker a livello mondiale, che il 22 settembre ha interrotto diversi siti web controllati dal governo iraniano e affiliati allo Stato come simbolo di sostegno verso le contestazioni. Le restrizioni sull’uso di internet e dei social continuano in modo frammentato in Iran e l’accesso viene rallentato soprattutto nei momenti in cui hanno luogo le maggiori proteste. Il provvidenziale utilizzo degli hashtag e l’immediatezza della comunicazione mediatica ha fatto in modo che la vicenda di Mahsa Amini e le rimostranze scaturite fossero diffuse a livello mondiale.
Il 4 dicembre 2022 c’è stato un primo segnale di cedimento del governo iraniano che, come dichiarato dal procuratore generale iraniano Mohammad Jafar Montazer, si è reso disposto a rivedere le regole sul velo obbligatorio. Avvicinamento offuscato dalla condanna a morte di Mohammad Ghobadlou e Mohammad Boroughani, rispettivamente di 22 e 19 anni, confermata dalla Corte suprema del paese lo scorso 24 dicembre e che tra l’8 e il 9 gennaio sono stati trasferiti in isolamento, passaggio che precede l’esecuzione.
Condanne, esecuzioni, arresti, torture, false confessioni, insabbiamenti. Tutte dinamiche con le quali il regime dittatoriale dell’Iran ha ormai dimestichezza e di cui le forze dell’ordine sono promotori. Il caso di Masha Amini è stata la scintilla che ha acceso i riflettori su condizioni disumane che caratterizzano l’Iran da decenni e sulle quali è arrivato il momento di interrogarsi per porre fine alla dittatura mascherata da Repubblica.
Annaclaudia D’Errico