9 Marzo 2019
Atena Daemi, giovane attivista iraniana, aveva un sogno: liberare l’Iran dalla pena di morte. In modo assolutamente normale e legittimo ha distribuito volantini contro la pena capitale e criticato sui social il numero record di esecuzioni nel suo Paese ed è anche scesa in piazza per far sentire la sua voce: tutto questo, però, è stato visto come un’attività criminale, ragion per cui nel 2015 è stata condannata a sette anni di carcere in quanto accusata di “raccolta e collusione contro la sicurezza nazionale” e di “diffusione di propaganda contro il sistema”. La cosa più eclatante è che il suo processo è durato solo 15 minuti.
La pena di morte in Iran è prevista per una innumerevole serie di delitti: omicidio, rapina, stupro, blasfemia, tradimento, spionaggio, terrorismo, reati economici, reati militari, cospirazione contro il Governo, adulterio, prostituzione, reati legati alla droga, senza risparmiare donne e minorenni. L’impiccagione è il metodo più utilizzato ma vengono usati anche altri metodi come la lapidazione, le esecuzioni in pubblico e altri metodi più moderni. Chi sperava che con l’elezione di Hassan Rouhani nel maggio del 2013 ci sarebbe stato una diminuzione delle condanne alla pena di morte in Iran, si è dovuto ricredere: l’Iran rimane il Paese con il più alto numero di esecuzioni pro capite al mondo.
Le organizzazioni umanitarie come Amnesty International, Osservatorio di Human Right e “Nessuno tocchi Caino” denunciano continuamente e quotidianamente le violazioni dei diritti umani in Iran: la lotta contro la pena di morte non si limita solo a fermare le esecuzioni ma anche a salvare vite umane e a evitare errori giudiziari irreparabili.
In carcere Atena Daemi è stata maltrattata e messa in isolamento ma non per questo ha smesso di lottare e protestare sia contro la pena di morte che contro le condizioni in cui si trovava. La donna infatti nel 2017, nella prigione di Evin, ha fatto lo sciopero della fame per ben cinquantacinque giorni. In quel periodo, Amnesty International, ha scritto una lettera chiedendo che Atena venisse trasferita dalla prigione in ospedale in quanto a causa dello sciopero della fame aveva tossito sangue e aveva sofferto di gravi perdite di peso, nausea, vomito e dolore ai reni. I medici stessi ritenevano necessario il ricovero immediato ma le autorità della prigione hanno rifiutato di autorizzare il suo trasferimento in ospedale. Il suo sciopero della fame si è concluso solo nel giugno 2017, dopo che una corte d’appello ha annullato le accuse addizionali contro di lei e le sue sorelle: furono accusate ingiustamente di aver insultato gli ufficiali di turno.
All’inizio del 2018 ha fatto un altro sciopero della fame nella prigione di Shahr-e Rey per ventidue giorni per protestare contro il suo trasferimento. La sua salute, da quel momento in poi, è peggiorata di molto. Allarmato dalla situazione, il presidente della sottocommissione per i diritti umani (DROI) del Parlamento europeo, Pier Antonio Panzeri, ha dichiarato di essere gravemente preoccupato per il modo crudele in cui veniva trattata e ha esortato le autorità iraniane a prendere provvedimenti.
Come Atena, molte persone che si sono battute per i diritti umani in Iran sono state imprigionate e molte altre hanno subito interrogatori e procedimenti penali. Ha dichiarato la donna: “Questi arresti, detenzioni, minacce e intimidazioni sono i sacrifici che dobbiamo compiere per ottenere la nostra libertà e diritti…non dovremmo mai smettere di resistere o di opporci all’oppressione. Nessuna vittoria arriva facilmente, e nessuna ingiustizia dura per sempre.”
Ad oggi, nel 2019, tutto ciò che sappiamo su Atena Daemi è che potrebbe avere la sclerosi multipla e che, però, le viene negata una risonanza magnetica. Circa dieci mesi fa, un medico nella prigione di Gharchak ha stabilito che la giovane donna aveva bisogno di una risonanza magnetica e lei stessa ritiene che sia necessario vedere uno specialista ma non è ancora successo: questo perché i prigionieri politici in Iran vengono esposti ad un trattamento troppo duro che spesso include la negazione delle cure mediche, cosa che viene anche usata come strumento di intimidazione contro i prigionieri che hanno sfidato le autorità.
La speranza di questa giovane donna, e delle altre persone che lottano come lei, è che prima o poi l’Iran riuscirà a tener conto della violenta carneficina di cui è artefice e dovrà comprendere che se vuole cooperare con gli stati Occidentali deve anche accettare le critiche mosse alle leggi interne al proprio Paese e rivederle sulla base della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Michela Monaco