25 Novembre 2020 C’è nell’Italia centrale un luogo alle pendici di alti monti
celebre ed in molte regioni famoso, le valli d’Ansanto…
Qui un’orrenda spelonca e diversi spiragli di Dite (dio della morte)
vengono mostrati, e una grande voragine dove inizia l’Acheronte
che spalanca le mefitiche gole
Così Viriglio parlava della Mefite nell’Eneide. Così descriveva questo particolare fenomeno geologico che squarcia la verde Irpinia a pochi chilometri dalla graziosa Rocca San Felice.
Se quella porta dell’inferno custodita gelosamente dalla Valle d’Ansanto potesse parlare cosa direbbe? Saprebbe descrivere il suono devastante di quella notte? Saprebbe guardare di soppiatto l’intera spina dorsale del Meridione tremare lasciando spezzare per sempre decine di vertebre? Quel 23 novembre del 1980 – ultimo in ordine cronologico – le porte dell’Acheronte si spalancarono per quasi 3.000 anime inconsapevoli, qualche minuto prima, del loro triste destino. Giovani, anziani, donne e bambini. Inconsapevoli come da sempre accade all’uomo di fronte alla potenza e all’inarrestabilità della natura. Ognuno con la sua storia, ognuno con le sue speranze. Perché il terremoto è democratico per alcuni aspetti: non guarda in faccia nessuno, sebbene poi a farne le spese più ingenti siano sempre le fasce meno abbienti. Benché questa zona abbia da sempre fatto i conti con la furia tellurica e le sue violente e mortifere conseguenze. Basti pensare che i sismi del 1910, del 1930 e del 1962 avevano già provocato circa 1.500 vittime oltre a migliaia di sfollati e all’incalcolabile danno al patrimonio edile. Paesi come Aquilonia e Apice (solo per citarne due ma la lista sarebbe lunga) furono abbandonati e ricostruiti pochi chilometri più distanti.
Perché introdurre un articolo sul terremoto del 1980 parlando della Mefite? Forse proprio perché rispecchia appieno questa terra e tutte le sue contraddizioni. Fertile e prosperosa ma al contempo in grado di spaventare a vita chi la ama e quotidianamente le accarezza la pelle lavorandola. È storicamente una terra impoverita (non povera, si badi bene), una terra di emigrazioni. Di gente che è scappata anche dalle catastrofi naturali. L’Irpinia, in particolar modo, andrebbe raccontata a spezzoni. Magari percorrendo un viaggio a bordo della ferrovia che unisce Avellino a Rocchetta, perché su quei binari corre molto sinteticamente la lenta via che mette a contrasto il patrimonio storico/naturalistico/culturale e le mancanze di un sistema che queste risorse le ha sovente depauperate o ignorate.
I miasmi tossici della Mefite nel bel mezzo delle montagne e della natura stupenda, quasi prepotente, incarnano alla perfezione la devastazione mentale e fisica del terremoto. Un Dio crudele in grado di cancellare con un colpo di spugna millenni di civiltà e trasformare questi “paese presepe” (come li definì Lina Wertmuller nel bellissimo cortometraggio “È una domenica di fine novembre”) in macerie e gli uomini in carne da macello. Un fantasma che provò a ripresentarsi tre mesi dopo, con le scosse di San Valentino. Quelle del 14 febbraio 1981. Epicentro Arpaia (Benevento), poco sopra i Monti di Avella, le quali danneggiarono pesantemente la zona del Mandamento di Baiano, fino ad allora rimasta abbastanza defilata.
C’è un’immagine fissa che mi è rimasta dentro in questi mesi, girovagando tra le province di Avellino, Salerno, Benevento e Potenza. Un’icona che rappresenta la spiritualità – a volte macabra – di questi posti, delle sue genti e delle loro credenze. È un grembiulino da neonati ancora appeso in una casa diroccata di Conza della Campania. Uno dei paesi più colpiti con i suoi 184 morti e il totale abbandono del vecchio centro abitato (il nuovo paese è stato ricostruito a valle). Laddove i 7 gradi di magnitudo hanno seminato morte paradossalmente sono i comuni oggetti di vita quotidiana ad infondere inquietudine e tristezza. È il “mantesino” di un bambino, a testimoniare che il germoglio del futuro non si è comunque spento. Sebbene non sia facile raccontarlo a quelle migliaia di persone cui il malaffare, gli “inciuci” e i miliardi di Lire spariti non hanno restituito neanche una piccola parte della vita che fu. Ma questo, ahinoi, è costume comune da in ogni epoca nel Belpaese.
Sempre nella vecchia Conza – che oggi è visitabile come Parco archeologico di Compsa prenotandosi presso la Pro Loco – si può scorgere l’interno di un bar. Chiudendo gli occhi sembra ancora di vederlo popolato da avventori impegnati a guardare i programmi sportivi dell’epoca, commentando i risultati della Serie A. Ci sono bottiglie, suppellettili e oggetti rimasti là da quarant’anni. Dalle 19:34 di quel 23 novembre. L’Avellino aveva battuto l’Ascoli 4-2 lasciando l’ultimo posto della Serie A. Rimane l’ultima emozione positiva di una domenica che giocoforza ha cambiato per sempre la vita e il destino di questi luoghi.
E l’ha cambiata anche a chi non è stato colpito. Perché mentalmente è una violenza difficile da tollerare. Gli abitanti di Sant’Andrea di Conza – centro situato proprio di fronte Conza – si sono svegliati la mattina del 24 novembre 1980 senza vedere più lo stesso panorama. Perché il fato così aveva deciso: loro indenni e cinque chilometri più in là l’inferno in Terra. E le ragazze, i ragazzi intenti a frequentarsi hanno perso i loro contatti con i coetanei di Teora, Laviano e Sant’Agata dei Lombardi. Luoghi divenuti cimiteri a cielo aperto dove quasi la metà della popolazione è morta. In queste zone così rurali, ancor più “distanti” dal mondo quattro decenni fa, il senso ancestrale della vita ha spesso il sopravvento. Il volersi appellare a una volontà divina forse per esorcizzare una realtà a volte troppo amara. Quella sera saranno stati in tanti a pensare a un’opera dello Scazzamauriello (il folletto dispettoso e magico riconosciuto in gran parte nella cultura popolare meridionale) facendo però immediatamente marcia indietro una volta compreso l’accaduto: tutto troppo crudele e senza pietà per appellarsi a colui che tradizionalmente, se non ti prende in simpatia, ti sposta al massimo qualche oggetto dentro casa. No, ci sono momenti storici in cui ci ritroviamo incastrati, soffocati, e neanche la più fervida fantasia folkloristica ce li può edulcorare. Quando la morte ti arriva in faccia all’improvviso non hai tempo per metabolizzarla. E non hai armi di difesa.
Non sta a queste righe giudicare l’apparato di ricostruzione postuma, le sue nefandezze e i suoi buchi nell’acqua. Non ne ho le competenze. Ma sta a queste righe porre l’accento su quanto la terra d’Irpinia tenda spesso a scavarsi la fossa da sola. A dimenticare le sue bellezze, i suoi trampolini di lancio che le garantirebbero un’autonomia non indifferente. Il terremoto – che purtroppo è stato, è e sarà sempre una piaga a queste latitudini – ha sicuramente creato delle zavorre pesantissime e impoverito una zona già economicamente in difficoltà. Perché di fondo si è sempre investito poco sul territorio. Se non, come detto, per spremerlo e indebolirlo. Sui danni prodotti dal sisma (che oggi ammontano a circa 66 miliardi di Euro) e il patrimonio per la ricostruzione si sono mossi numerosi tentacoli, dando vita ad alcuni degli scandali più grandi e nebulosi della nostra Repubblica, si veda Mani sul Terremoto, facente parte del filone Mani Pulite, scaturito dalla precedente indagine giornalistica di Indro Montanelli su “Il Giornale”. Inchiesta che provocò un duro scontro tra il giornalista e l’allora presidente del consiglio Ciriaco De Mita, non un nome casuale in questo contesto.
Il riscatto deve e può partire dalla consapevolezza, dal rispetto del territorio e da una inevitabile illustrazione a 360 gradi di quello che l’Irpinia è e non di quello che appare tra stereotipi e noncuranza. Purtroppo (ma verosimilmente) il suo riscatto deve partire anche da un’epurazione pressoché totale di chi da decenni tiene il freno a mano tirato per favorire i propri interessi. Un’epurazione che non può non riguardare una classe politica ben radicata da queste parti e per cui sarebbe sufficiente essere inserita in un contesto nazionale “semi pulito” per non esistere più.
Ma senza voler sconfinare nella politologia da bar preferisco sottolineare come provo un certo sgomento nell’apprendere quanto a livello generale spesso ci sia poca conoscenza dei borghi, dei castelli, dei parchi archeologici, dei santuari, delle abbazie e dei percorsi naturalistici che in un colpo solo avrebbero il potenziale per dare lavoro e apportare migliorie a zone ed opere attualmente lasciate letteralmente morire. Ho cominciato a intuirlo in un’afosa giornata di inizio settembre, camminando tra le rovine di Abellinum (tenute male e presentate ancor peggio) e la chiesa di Sant’Ippolisto ad Atriplada che ingloba lo Specus Martyrum (cimitero paleocristiano di Abellinum), proseguendo per il borgo antico di Mercogliano e la sua Capocastello, ridotta a erbacce e sporcizia che quasi divorano il castello longobardo. Un vero e proprio patrimonio che se “venduto” e spiegato bene potrebbe fungere tranquillamente da porta d’accesso a tutta la provincia avellinese. A maggior ragione se si pensa che la Campania ha da sempre un appeal forte e radicato presso il turismo nazionale ed estero.
A quarant’anni da quello che per l’Italia e in particolar modo per il Sud è stato uno degli eventi più duri e dannosi del Novecento non c’è altra vita d’uscita che la reale valorizzazione del suolo natio, di concerto con politiche serie ed oculate. Offrire e non svendere il proprio territorio è un quasi un dovere morale per chi dispone di bellezze tanto rigogliose. Un obbligo che deve scorrere prorompente e limpido, come le acque del Sele e del Calore, in grado di inarcarsi in boschi e capovolgersi in cascate ricordando quanto la natura sappia darci e toglierci a seconda della sua volontà.
“La parola è potentissima quando viene dall’anima e mette in moto tutte le facoltà dell’anima ne’ suoi lettori, ma, quando il di dentro è vuoto e la parola non esprime che se stessa, riesce insipida e noiosa”. Così diceva Francesco De Sanctis, celebre poeta, filosofo e politico irpino. Una frase che sembra riverberarsi alla perfezione sulla sua terra dopo oltre cent’anni.
Simone Meloni