30 Ottobre 2019
Immaginate di nascere o andare ad abitare in un paese, studiarci per un determinato numero di anni e, quindi, viverci tanto da considerarlo casa. Un posto sicuro, dove tornare senza la paura di essere discriminati nonostante la vostra etnia o la famiglia di provenienza che potrebbe non essere di quel determinato paese. Sembra un ragionamento banale, una cosa scontata, come succede in alcuni paesi, ma non lo è. O, almeno, non lo è in Italia. Per lo stato italiano, infatti, se non si è figli di genitori italiani è un’utopia considerarsi a tutti gli effetti cittadini e, di conseguenza, ottenere la cittadinanza prima di aver compiuto 18 anni. In pratica, se si è stranieri una volta, lo si è per sempre, è più o meno questa la filosofia che accompagna il Belpaese dal 1992. Anno a cui risale l’ultima modifica sul percorso burocratico da compiere per ottenere la cittadinanza italiana. In base alla legge 91 del 1992, chi è nato in Italia da genitori stranieri può diventare cittadino italiano al compimento dei 18 anni, a condizione che abbia mantenuto costantemente la residenza in Italia dalla nascita.
Argomento di dibattito in ambito governativo, nelle ultime settimane, è lo Ius Culturae. Una proposta di legge che dovrebbe concedere il diritto alla cittadinanza italiana ad un minore straniero, nato in Italia o arrivato entro una certa età, a patto che abbia frequentato regolarmente almeno uno (o più) cicli di studio o dei percorsi di istruzione e formazione professionale. In sostanza, per diventare cittadino bisogna dimostrare di avere un certo livello di “culturae”. Questa proposta era già stata presentata al Senato nel 2015, ma senza mai essere approvata e, quindi, si arenò con motivazione sconosciuta, probabilmente solo perché, secondo i rappresentati di governo, questo tema non era di particolare rilievo. Dopo tre anni, il 24 ottobre del 2018, la proposta fu di nuovo discussa, ma subito sospesa. Ora, a riprenderla in mano, sperando di mettere fine al tira e molla durato quattro anni, è stato Giuseppe Brescia, nominato relatore della legge in sostituzione di Roberto Speranza, diventato Ministro della Salute il 4 settembre 2019.
Secondo il leader del movimento 5 stelle e Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio lo Ius Culturae non può essere considerata una priorità. Come se una proposta di legge possa pesare più di un’altra, soprattutto se tutte puntano al bene del cittadino e a far sentire quest’ultimo tale. Nell’area PD, ci sono dubbi ma non tanto sul principio che alimento lo ius culturae, ma sui tempi, preferisco infatti rinviarla almeno a giugno 2020. Di tutt’altra veduta, senza che questo provochi alcun stupore, sono le posizioni contrarie alla proposta di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Come se concedere la cittadinanza a qualcuno che ha mostrato interesse verso l’istruzione italiana costituisse una qualche velata minaccia al valore della stessa.
È d’obbligo porre attenzione anche sulla differenza tra lo Ius Culturae e lo Ius Soli, entrambi temi che hanno dato vita ad accesi dibattiti. Lo Ius Soli, una proposta di legge che il precedente governo ha deciso di non far passare, riguarda il concedere la cittadinanza a tutti i minori nati in Italia da genitori stranieri. Quest’ultima è una pratica messa in atto già in molti paesi, come Regno Unito, Canada, America meridionale o Portogallo. Lo Ius Culturae, è bene ribadirlo, vuole dare la cittadinanza ai minori, figli di genitori stranieri, che abbiano tra i 12 e 18 anni di età e completato almeno un ciclo di studio in Italia, ad esempio le scuole primarie. Si tratta di concedere ai minori che genitori, o chi per loro, hanno scelto di far istruire in Italia, la possibilità di sentirsi a casa, senza che qualcuno posso porre l’accento su qualche differenza. Essere cittadino italiano a tutti gli effetti, con tanto di documento alla mano che attesti il riconoscimento da parte dello Stato dei propri diritti civili e politici, non è qualcosa da poter sottovalutare o relegare tra i documenti di minor importanza.
Lo Ius Culturae è uno dei punti fondamentali che abbracciano il tema chiave dell’integrazione che, a passi lenti, si sta facendo largo nella politica italiana. Sarebbe quasi il momento di accelerare un po’ il passo ed iniziare a considerare i migranti come persone fisiche, a pari di qualsiasi altro cittadino. Perché indipendentemente dalla fisionomia del viso o dei capelli, o da qualsiasi altra cosa che potrebbe essere considerata “non italiana”, ogni singolo cittadino ama il paese dov’è cresciuto e deve poter mostrare la sua appartenenza.
Annaclaudia D’Errico