20 Luglio 2020
“Abbiamo il dovere e la responsabilità di programmare non tanto un ritorno alla normalità, nel senso di ripristinare lo status quo ante, ma dobbiamo fare di più. Un ideale ritorno alla vecchia normalità non ci soddisfa affatto”. Questa è solo una delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte fatta il 15 giugno durante il suo intervento introduttivo per la seconda giornata di “Progettiamo il rilancio”, il nuovo piano economico per risollevare le sorti del paese. Mai furono parole più appropriate, il “ritorno alla normalità” tanto agognato dalla massa è soltanto uno specchietto per le allodole, un semplice palliativo per chi non riconosce, o non riesce ad ammettere, che la normalità che da decenni la popolazione subisce non bastava, non basta, non basterà. Appropriate, ma tardive.
Del resto, le esplosioni di sensibilità e consapevolezza “a scoppio ritardato” sembrano essere una peculiarità dei tempi d’azione dell’attuale Presidente del Consiglio, spesso tardivo nell’esternare il proprio dissenso e le proprie idee rispetto alle politiche alleate ed avversarie o alle situazioni scomode dall’etica del tutto discutibile che hanno attraversato il nostro paese (l’approvazione de decreto sicurezza e il successivo dietrofront rispetto a Salvini ne è la prova). Lo status quo ante citato dal premier è in realtà inesistente: con l’emergenza sanitaria in atto la guerriglia è soltanto diventata catastrofica, tutti i tagli alla sanità, alla formazione, alla cultura, al diritto al lavoro si sono riversati sul bisogno dei cittadini impossibilitati a svolgere il proprio impiego. La soluzione era, nei mesi precedenti, il decreto per malati terminali cura Italia”. Cura. Dal latino “cura”, derivato dalla radice ku/kav, significa “osservare”, da confrontare direttamente con il sansxrito kavi: saggio. Osservare con saggezza, agire con responsabilità, con la consapevolezza di avere, di fronte a sé, qualcuno che ha realmente bisogno della tua competenza, voglia, concretezza. Il nome del primo decreto approvato a marzo dal consiglio dei ministri, “cura Italia”, sembrava quasi poetico, ma lo scetticismo generale verso i provvedimenti da intraprendere (quello vero, critico, ragionato) era del tutto fondato: come ci si prende cura di un paese che ne aveva bisogno da anni? Un vaccino contro il definanziamento del settore lavorativo, di questo passo, non lo otterremo neanche nel 2021, se in un momento storico tanto estremo, i primi a dover essere protetti dallo Stato si sono ritrovati a dover affrontare un virus sconosciuto senza i presidi sanitari giusti. Una terapia per il rientro della crisi non potrà essere messa in pratica se la maggioranza delle misure previste per lavoratori, lavoratrici autonome ed autonomi, partite iva, precari, non sono state portate a termine a causa di incompetenze e ritardi.
Guarire sarà impossibile se la telematizzazione dell’accesso all’istruzione non è omogenea e ingigantisce soltanto il digital device in maniera totalizzante su tutto il territorio italiano. Ritornare almeno a quel “prima della guerra” è una prospettiva estremamente lontana se la guerra a tutti il settore appartenente al mondo dello spettacolo è considerato meno di zero, se la tanto agognata istruzione gratuita non è riuscita ad esserlo nemmeno per una piccola porzione d’anno accademico. Non c’è rimedio alla malattia se, a rimanere chiuse, sono le scuole, le università e le biblioteche perché gli unici a potersi permettere di restare a casa sono dipendenti, professori e professoresse, collaboratrici e collaboratori scolastici e universitari a discapito della vita accademica di studenti e studentesse impossibilitati a rivendicare il diritto ad imparare. E la cura è diventata più dannosa della malattia.
Maria Vittoria Santoro
Tratto dal bollettino informativo “Prova da sforzo“.