8 Gennaio 2015
Questa notte le sirene risuonano tra questi agglomerati di cemento e umidità.
Questa notte non si dormirà.
Le camionette ci assalgono fino a entrare nel quartiere: tra caschi e manganelli, a passi di marcia, sappiamo che sarà un sera dove lo spazio tra subire e contrattaccare, sarà segnato dalla prontezza di non cadere nelle loro mani: è guerra. Ma forse la viviamo da sempre.
Sorrido con l’aria di chi sa andare avanti, appunto, sopravvivendo, campando, in questa matrioska di problemi, nascosti in questi palazzoni, plasmandomi in questa catena di montaggio quotidiana.
Forse è abitudine, forse alienazione, ma si prosegue perdendo pezzi di sé.
Lavoro nell’acciaieria fiore all’occhiello di questa città, la stessa in cui lavorava mio padre. Ma la delocalizzazione è alle porte e ormai il passato diventa un modo per dare forma ad un futuro in disuso.
Dicono che i nuovi paesi in via di sviluppo offrono opportunità: una tassazione migliore e nuovi stimoli, nuovi impulsi di mercato. La cosa mi puzza un po’ se penso che il mio collega di una nazione lontana, polacco o brasiliano che sia, viene pagato ancor più miseramente di me, ancor più miseramente conta la sua vita; difenderla è, insomma, un optional. A ogni latitudine la catena di montaggio ci scompone e ci rende più fragili, se il padrone la fa correre più delle nostre vite.
La fabbrica è a qualche isolato da qui. Casa e lavoro insomma, tutto fuori dalla città o ai limiti di essa: senza far rumore. Senza dar fastidio a chi ne vive il cuore pulsante, laddove confluisce la movida delle serate universitarie e i locali più in, laddove il centro culturale stringe la sua mano alla borghesia imprenditoriale; noi siamo fuori dal coro vitale. Eravamo numeri, calcolati con enfasi negli anni di ricchezza di un’Italia ruggente, dove tutto era possibile e dove tutto sembrava non avere fine. Segnavamo con il nostro lavoro, importanti punti percentuali di produzione. Il nostro sforzo, il nostro sacrificio era ripagato con la solita busta paga e la consapevolezza di essere un fattore positivo. Oggi invece i dati sono quelli che vedono: tagli, licenziamenti e cassa integrazione, sempre più stringenti sempre più laceranti. Le morti bianche diminuiscono, la crisi, allora, un effetto positivo ce l’ha. Anche ora siamo numeri: di impiccio, da eliminare, inutili alla causa.
Allora succede che questa infinita catena di montaggio logora e dunque ci si ribella.
La notte brucia.
Si protesta, si occupa come i sardi le miniere, come chi si vede defraudato di un diritto, quando con il suo dovere ha servito il paese. Allora il centro ascolta questo brusio e ha paura. Già ha proprio paura, la stessa che cavalcano coloro che questo ventennio l’hanno passato governando, giusto per riacciuffare voti, o chi ci manifesta la sua finta solidarietà, predicata per anni, senza essersi mai preoccupato della nostra causa. Allora ci ritroviamo soli questa notte, le camionette ci inseguono fin dentro il quartiere.
Un sorriso mi accompagna verso il mio destino fatto di lacrimogeni e manganelli.
Domani sarò un fatto di cronaca, l’ennesimo ferito di questa tensione sociale e scontri con la polizia per la chiusura della fabbrica. Al massimo, se sangue sarà versato, ascolterete il mio nome, solo in tal caso avrò un’identità. Il centro ritornerà a vivere dopo una notte di paura: noi saremo solo un brusio, spento, divorato nella repressione. Noi, pezzi periferici di questa catena di montaggio, ritorneremo al nostro posto. Tutto ciò fino a quando potrà durare? Fino a quando l’ultimo altoforno si spegnerà. Allora la notte tornerà a bruciare e non si dormirà: non dormirà la città intera.
Gian Luca Sapere