13 Giugno 2020
Alcune notizie sembrano cogliere di sorpresa l’opinione pubblica, come se fosse ignara di quanto accade quotidianamente intorno a sé. L’annuncio di un’elefantessa morta tra le acque di un fiume insieme al cucciolo che aveva in grembo per aver ingerito un ananas piena di petardi è una di queste. I giornali hanno parlato di cibo offerto all’animale ma, secondo le prime ricostruzioni, l’ananas sembra essere stata ingerita per caso. Il frutto contenente i petardi si trovava su una bancarella ed era indirizzato alle creature selvatiche solite addentrarsi tra le vie del paese. L’idea che un animale docile, come l’elefante – tra l’altro incinta – sia morta tra le acque dove ha provato a trovare rifugio è qualcosa che logora lo stomaco. Ed è giusto che sia così. Ma alla luce di quanto accade quotidianamente in tutto il mondo, una reazione di questo tipo, che non sia collegata ad una più generale riflessione sulle crudeltà a cui gli animali – tutti, non solo quelli che ci fanno più tenerezza – vanno incontro per mano degli esseri umani, potrebbe apparire alquanto ipocrita. La sofferenza è sofferenza. Sia che si tratti di un’elefantessa, sia che si tratti di un bovino costretto a vivere in un allevamento intensivo.
Solo due settimane fa un episodio simile è accaduto a Salerno. Un cinghiale si è riversato tra le acque della zona orientale ed è stato tratto in salvo dai militari della Guardia Costiera e della Finanza. L’animale si era rifugiato tra le acque della città perché ferito da un’arma da fuoco. L’episodio è stato immediatamente bollato come caso isolato frutto del bracconaggio, come se la caccia – che può essere praticata per scopo ricreativo – desse una parvenza di bontà all’uccisione di un animale. In Abruzzo è recentemente stato deciso che la caccia dell’animale è consentita fino al 30 settembre anche di notte e che la stessa è “necessaria per la riduzione dei rilevanti impatti causati dalla specie nelle attività agricole”. Notizie, queste, che non scuotono l’opinione pubblica come quella dell’elefantessa. Perché i tre eventi non provocano la stessa reazione? Cosa li distingue? Che l’elefante è un animale che ci piace di più rispetto al cinghiale? Che la morte per arma da fuoco sia più accettabile di quella con i petardi? La sofferenza è sofferenza.
L’industria alimentare ha abituato i consumatori ad usufruire della carne animale rendendoli spesso completamente inconsapevoli di ciò che accade dietro i processi di trasformazione di uno degli alimenti più presenti sulle tavole di tutto il globo terrestre. Proposta ai compratori in maniera asettica, estremamente pulita, già ridotta in pezzature più pratiche per essere poi ulteriormente trasformate all’interno delle nostre cucine, inscatolate, rese “catchy” da orpelli e confezioni ultra-colorate volte ad attrarre anche i bambini più capricciosi, la carne è, paradossalmente, priva di “storia”. Se in tempi addietro la macellazione avveniva in maniera molto più cruenta, ma con maggiore consapevolezza dell’atto, con l’avvento degli allevamenti intensivi (che non risparmiano alcuna sofferenza all’animale, ma anzi la prolungano in maniera lenta e dolorosa), tendiamo ad essere molto meno sensibili, o a scacciare del tutto l’idea che gli animali patiscano grosse sofferenze prima di giungere, in altre forme, sui nostri piatti. Nel saggio “Il nostro animale quotidiano”, la giornalista Anna Manucci riprende il concetto di “animale tecnologico”, titolo del testo del Preside della facoltà di veterinaria di Parma Giovanni Ballarini, scritto nel 1983 sulla scia del testo inglese del 64 “Animal Machine”di Ruth Harrison. “L’animale”, scrive la Manucci, “con la sua corporeità viva e con la sua individualità, non appare quasi mai, perché viene allontanato e nascosto dal modo di produzione moderno (o rappresentato in modo così fasullo da essere offensivo: allegri maialetti che corrono a diventare prosciutti, tonni che giocando entrano nelle scatolette, vitelli felici in verdi vallate). Ma prima del piatto di arrosto o del panino con il prosciutto c’è una storia che bisognerebbe conoscere”. Ed è una storia che ha cambiato le attitudini sociali e il corredo genetico degli animali “da reddito”. Molte specie, oltre ad essere nate con una particolare propensione alla socialità e alla curiosità, vengono private anche di uno degli istinti primordiali legati allo sviluppo emotivo e alla sopravvivenza della specie: la maternità, che si esprime adesso soltanto ingabbiata nei canoni imposti dal consumatore. Il latte destinato ai nati è destinato all’uomo, i cuccioli destinati alla propria madre sono a loro volta destinati agli umani, uccisi presto o messi all’ingrasso forzato per produrre di più in seguito. La maggioranza degli animali da macello vive in condizioni estremamente critiche per la propria salute e per il proprio benessere, in spazi talmente angusti da non riuscire a sviluppare del tutto le proprie capacità fisiche (insorgenza di distrofie muscolare a causa della mancanza di movimento), viene castrata senza anestesia, selezionata per le proprie caratteristiche adatte alla produzione, costretta a cambiare dieta (l’epidemia di mucca pazza ne è l’esempio). L’uccisione è soltanto l’ultimo tassello della catena di montaggio.
È facile, qualcuno potrebbe definirlo anche comodo, mostrarsi sofferenti davanti alla morte per mano dell’umano di un’elefantessa che porta in grembo il proprio cucciolo. Un avvenimento che colpisce come un pugno nello stomaco, ma che avrebbe più senso se smuovesse le coscienze. Nessuno di noi può reputarsi migliore della persona che ha riempito l’ananas di petardi. O di colui che ha ferito con un’arma da fuoco il cinghiale che è stato trovato nella zona orientale di Salerno. Nessuno di noi dovrebbe esimersi dai sensi di colpa per la morte di qualsiasi animale, che sia un elefantessa o un bovino destinato a finire sulla nostra tavola. La tragedia che ha portato via con sé due vite, una nemmeno ancora nata, e che ha dato il via ad una vera e propria rivolta tramite social dovrebbe riuscire a far comprendere a tutti un concetto fondamentale: la sofferenza è sofferenza. È arrivata l’ora di conoscere la storia che si cela dietro i piatti che sono parte integrante delle nostre giornate, l’abbiamo ignorata fin troppo.
La Redazione