19 Luglio 2017
Il 19 Luglio del 1992, alle ore 16:58, una Fiat 126 esplose a Palermo, in via Marano D’Amelio 21, mentre al suo fianco si trovava il magistrato Paolo Borsellino. Novanta chilogrammi di esplosivo si riversarono in strada, le auto si incendiarono, le abitazioni crollarono e Paolo Borsellino, insieme agli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, perse la vita. Cinquantasette giorni dopo la morte di Giovanni Falcone, l’Italia ritornava a perdere brandelli di sé.
Il seguito della Strage di Via d’Amelio è noto come il più grande depistaggio giudiziario che l’Italia abbia mai conosciuto. Dei venticinque anni che ci separano da quel giorno, sono almeno sedici quelli in cui menzogne, occultamenti e favoreggiamenti hanno inficiato le indagini e la ricerca della verità. Si tratta di uno stralcio di storia del nostro paese che si è articolato principalmente intorno a tre figure: Arnaldo La Barbera, Vincenzo Scarantino e Gaspare Sparatuzzo.
Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile di Palermo, fu incaricato personalmente dal Governo italiano di indagare a fondo e di svelare presto l’identità dell’attentatore. Ci riuscirà cinque mesi più tardi, consegnando Vincenzo Scarantino nelle mani delle forze dell’ordine. Sulle dichiarazioni e testimonianze di quest’ultimo si baseranno tre processi Borsellino che porteranno ad infliggere severe pene anche a Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto e Salvatore Candura. Questa sarà la verità processuale finché Gaspare Sparatuzzo, arrestato nel 1998, non inizierà a collaborare con le autorità giudiziarie mettendo in discussione la validità delle indagini e delle deposizioni fino a quel momento raccolte.
Un improvviso colpo di scena metterà in imbarazzo operatori del diritto e forze dell’ordine: nel 2008 l’assassino di Don Puglisi, Gaspare Sparatuzzo, confesserà di aver organizzato lui la strage, rubando la fiat 126, posizionandola nel luogo dell’attentato e caricandola di esplosivo. Etichetterà Scarantino come “un pupo nelle mani degli agenti di polizia”, domandosi persino come fosse possibile che avessero creduto alle sue parole. Una domanda più che legittima visto che Vincenzo Scarantino non era un affiliato di Cosa Nostra, ma un semplice ladro di gomme d’auto con una forte dipendenza per l’eroina, conosciuto da tutti come “lo scemo della borgata” e del tutto estraneo a questi giochi di strategia. Era una pedina nelle mani di La Barbera che, per ragioni ancora non note, si impegnò affinché ogni colpa ricadesse su di lui ricorrendo anche a mezzi non del tutto leciti. Di sicuro c’è che il capo della squadra mobile seppe trarre vantaggio da quel non veritiero successo venendo premiato come capo dell’UCIGOS. Le ultime immagini pubbliche di lui, lo ritraggono con addosso un casco di fronte all’entrata della Scuola Diaz durante la notte nera del G8 di Genova.
Le nuove dichiarazioni del pentito costrinsero i magistrati ad aprire un nuovo processo, Borsellino quater, e a richiedere una revisione di quello precedente che è arrivata, da Catania, lo scorso 13 luglio e che ha assolto tutti gli imputati sopra menzionati. C’è, tuttavia, un punto oscuro all’interno della collaborazione di Sparatuzzo. Sebbene abbia affermato, durante il processo Quater, di non aver mai confessato la sua verità prima del 2008, risalgono al 1998 le sue dichiarazioni con Pier Luigi Vigna, ex Procuratore Nazionale dell’Antimafia, e Piero Grasso, attuale Presidente del Senato, in cui si dichiarava già colpevole per la Strage. Un vuoto di memoria di dieci anni, con annessa sparizione della trascrizione dell’interrogatorio che solo ora sembra essere ritornata alla luce.
Sebbene qualche scheletro sia venuto fuori nel corso di questi anni, siamo purtroppo ancora molto lontani dall’apprendere la totale verità sulla Strage di Via D’Amelio e ancora fin troppo incastrati in questa rete fatta di menzogne e depistaggi che qualcuno ha iniziato a tessere esattamente venticinque anni fa. Tuttora, infatti, non si conosce l’esecutore della strage: colui che controllò il telecomando per azionare l’autobomba. Tuttora non si è al corrente di come gli organizzatori della strage sapessero della presenza di Borsellino quella domenica pomeriggio. Tuttora non si sa a quale destino sia andata incontro l’agenda rossa, scomparsa in quel tragico giorno, che il magistrato era solito portare con sé e su cui annotava tutto. Tuttora non si conoscono i mandanti occulti e le menti raffinatissime. Tuttora si conosce una verità solo parziale, venuta fuori a fatica mentre in sedici anni pubblici ufficiali dello Stato italiano hanno fatto di tutto per mettere in atto il più grande depistaggio della storia del nostro paese. È qualcosa che rattrista molto sapendo che Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina erano uomini e donne di Stato, proprio come loro.
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