25 Novembre 2020
Il 25 Novembre è la giornata in cui si accendono i riflettori sulla violenza di genere perpetrata ai danni delle donne. Dopo ventuno anni dall’istituzionalizzazione della giornata sappiamo che il tema tocca diversi aspetti: giuridici in quanto punitivi di chi si macchia di violenza, economici dal momento che situazioni iniziali sfavorevoli possono implicare vulnerabilità, formativi per rendere la prevenzione realmente efficace e sociali in quanto il contrasto alla violenza di genere va di pari passo con l’affermarsi di un femminismo inclusivo ed egualitario che può essere realizzato soltanto se accanto ad un lavoro di eliminazione/prevenzione della violenza se ne fa uno di costruzione di assetti sociali egualitari. Data la consapevolezza di ciò, oggi approfondiamo il discorso della violenza dando spazio a tutte le sue declinazioni.
Violenza fisica
Quella fisica è sicuramente tra le prime declinazioni a cui si associa il termine “violenza”. Secondo i dati ISTAT, il 20,2% delle donne di età compresa tra i 16 e i 70 anni è stata vittima di violenza fisica e, nella maggior parte dei casi, l’hanno subita da parte di familiari o amici. Pugni, schiaffi, morsi o colpi con oggetti contundenti, lasciano lividi indelebili ai quali non basta qualche medicinale per mandarli via e, troppo spesso, la donna non ha neanche più il tempo di alleviare il dolore subito perché non respira più. Solo in Italia si registra un caso di femminicidio ogni due giorni e le percentuali non accennano a diminuire, anzi nell’arco di un anno sono salite del 5%. La violenza fisica, però, non riguarda esclusivamente l’infliggere colpi al corpo di una donna, ma anche farlo ad oggetti o animali a cui tiene particolarmente, provocando, in quel caso, un dolore indiretto. Il più delle volte i segni lasciati dai maltrattamenti vengono coperti con del trucco o giustificati da frasi come “sono caduta dalle scale”, gesti tipici per coloro che si trovano imprigionate in una situazione nella quale non riescono a vedere via d’uscita, impaurite dall’essere colpite con maggiore forza se qualcuno ponesse una domanda di troppo.
Violenza sessuale
“Non la violenterei perché non se lo merita” – Jair Bolsonaro -;
“Ti stupro” – militante CasaPound a Casal Bruciato nei confronti di una donna rom-
“Vorrei metterle il c***o in bocca mentre le tappo le narici”
L’ultima affermazione sopra citata è stata rivolta ad Irene Facheris, autrice e attivista femminista intersezionale attiva sul canale Instagram “cimdrp”. Il commento è stato lasciato su una foto del profilo di suo padre, Stefano Facheris. La scrittrice subisce in realtà da più di cinque mesi una shitstorm piena di minacce di stupro a causa dei contenuti proposti sul suo spazio e delle invettive di alcuni detrattori. La risposta del commissariato alla richiesta di denuncia della Facheris è stata la seguente: “Noi la denuncia la inoltriamo anche, ma tanto non succederà nulla. Ci vuole troppo tempo e ci vogliono troppi soldi per rintracciare questa gente e non è una priorità. questa richiesta verrà archiviata ancora prima di essere letta. Purtroppo, finché non ti stuprano davvero, non possiamo fare niente”. L’idea che uno stupro, una violenza sessuale sia un reato non prevenibile, è ancora una volta una causa di forza maggiore per l’accadere continuo di violenze sessuali ai danni delle donne in percentuali altissime in tutti i paesi del mondo. E la cultura dello stupro, definita tale per la prima volta più di quarant’anni fa dalla giornalista Susan Brownmiller nel saggio “Against our Will: Men, Women and Rape” in cui lo stupro viene definito non solo una violenza carnale, ma anche come un processo cosciente di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono le donne in uno stato di paura e come un modo di pensare e relazionarsi con gli altri, è talmente radicata nel nostro immaginario da rendere impossibile riuscire ad impostare qualsiasi discussione sulla violenza sessuale senza cadere nella solita fallacia legata all’indebolimento del reato a causa delle nostre scorciatoie mentali. L’editoriale di Vittorio Feltri in cui il giudizio morale si riversa sulla vittima e non sul carnefice ne è la prova. Se non riusciamo ad impegnarci affinché la rape culture, che non include soltanto la violenza fisica, ma la violenza delle parole rivolte alle donne, giudicate non aderenti al modo in cui la società descrive la loro presunta aderenza ad un tipo di condotta sessuale, alla vergogna del corpo, alla classificazione del proprio operato anche soltanto in base a quanto siano o no “violentabili”, lo stupro non verrà mai estinto.
Violenza psicologica
La violenza psicologica è insidiosa, subdola e quasi invisibile. Chi la esercita ha con sé uno strumento potente e sa bene come usarlo: la parola. Offese e accuse gratuite, mancanza di rispetto, svalutazione continua, ricatti, manie di controllo, atteggiamenti passivo-aggressivi, tutti meccanismi di sopraffazione perpetrati nel tempo che spingono la vittima a credere di essere una nullità. Forme che provocano ferite invisibile all’occhio umano, ma che bruciano ledendo pian piano l’autostima della vittima rendendola l’ombra di se stessa. Senso di smarrimento, perdita di memoria, instabilità emotiva e pensieri suicidi credendo che quest’ultimo possa essere la sola via di fuga, sono tra le conseguenze più diffuse. Chi subisce un maltrattamento psicologico continuo può anche arrivare a manifestare sintomi fisici come dolori muscolari o disturbi del sonno, campanelli d’allarme con cui il corpo cerca di far recepire un pericolo. Ledere l’autostima porta la donna ad essere completamente dipendente da colui che la ferisce perché convinta di non contare nulla da sola, rendendole ancora più difficile riconoscere di essere vittima di un costante abuso psicologico.
Violenza economica
Secondo Claudia Segre, Presidente di Global Thinking Foundation, ci sono quattro livelli di violenza economica: nel primo alla donna viene garantito solo un ruolo apparente di indipendenza economica venendo commissionata per faccende in banca ritenute di poco conto. Nel secondo alla donna viene affidata una “paghetta” con l’obbligo di rendicontare al partner tutte le spese effettuate e già allontanandola da quella che è la conoscenza della situazione finanziaria in casa. Nel terzo “la paghetta” si abbassa fino a risultare insufficiente per la spesa, i medicinali o altri beni di prima necessità. Nel quarto stadio l’uomo dilapida il capitale di famiglia, le intesta beni senza chiederle il permesso e la obbliga a firmare mutui o prestiti. Ci troviamo di fronte ad una sottile forma di soggezione psicologica che si sviluppa in più fasi e che può partire da condizioni differenti: l’essere in possesso di ingenti somme di denaro o patrimoniali la cui gestione – sulla base di un rapporto di fiducia – viene lasciata al partner, oppure l’impossibilità di rendersi economicamente indipendenti perché bloccati da un invadenza che a volte si traduce in forme di gelosia-possessione e con falso senso di protezione propendo un rapporto in cui le necessità economiche della donna debbano passare dalle finanze economiche del partner finendo per obbligare la stessa ad accettare una condizione di vita in cui sente di non poter chiedere nulla per sé.
Violenza emotiva
“L’abuso emotivo può essere altrettanto dannoso per le vittime quanto l’abuso fisico, perché è un abuso di fiducia”. Queste le parole del ministro della giustizia irlandese Charlie Flanagan rispetto al provvedimento emanato dall’Irlanda riguardante l’abuso emotivo all’interno del “Domestic Violence Act 2018”, una disposizione che fornisce protezione alle donne vittime di “controllo coercitivo” da parte del partner. La violenza emotiva da parte degli uomini sulle donne, origina chiaramente da tutti i punti citati in precedenza: l’oggettificazione del genere femminile e la sua svalutazione, il gioco di potere prodotto dal patriarcato presente nelle relazioni, una società che costringe la donna al controllo del corpo, delle azioni, al dover sacrificare le proprie aspirazioni, conduce spesso ad una scarsa autostima e ad una minaccia per la salute mentale. L’abuso emotivo si esprime spesso tramite la denigrazione e svalutazione dell’operato della donna all’interno di una coppia, rendendola dipendente dal giudizio dell’uomo; l’isolamento della partner dai contesti sociali preesistenti alla relazione; il ricatto morale perpetrato dall’abusante tramite “punizioni” e silenzi ogniqualvolta la donna mostra segni di indipendenza. In Irlanda, chi commette violenza emotiva rischia fino a 5 anni di carcere.
La Redazione