10 Febbraio 2017
Il 10 Febbraio del 1986, a Palermo, con 475 imputati accusati di crimini di mafia, 200 avvocati difensori, e 600 giornalisti, si celebrò il più grande processo penale al mondo. Visto l’ingente numero di attori, in pochi mesi, per l’occasione, venne costruita nei pressi del carcere dell’Ucciardone un’aula, in seguito nominata aula bunker, dotata di un avanzato sistema di protezione e di difesa della struttura e di un sofisticato mezzo computerizzato di archiviazione degli atti.
Ciò che accadde nel capoluogo della Sicilia quel giorno fu tra i momenti decisivi della lotta italiana alla criminalità organizzata. Sotto accusa non vi erano delle persone qualsiasi, ma i veri organizzatori e difensori di un sistema che a lungo aveva sfidato quello statale. Il velo di Maya sotto il quale si era sempre celata la mafia, argomento tabù della politica e della società, la cui esistenza veniva negata in ogni luogo, venne squarciato dalla cruenta realtà processuale realizzatasi attraverso l’intenso lavoro probatorio condotto dai componenti dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.
Il personaggio chiave fu il collaboratore di giustizia, Tommaso Buscetta, arrestato in Brasile nell’ottobre del 1983, la cui testimonianza si rivelò indispensabile per i giudici istruttori per delineare e comprendere la struttura interna e il funzionamento della mafia siciliana, arricchendo, in questo modo, le loro informazioni e soprattutto rendendo possibile lo svolgersi del processo.
Dopo 1314 interrogatori, 635 arringhe difensive e 349 udienze, il 16 Dicembre del 1987, in conclusione ai trentacinque giorni di Camera di Consiglio, la Corte d’Assise pronunciò la sentenza che prevedeva 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. L’attività giudiziaria continuò il 22 Novembre del 1989, quando si aprì il processo d’appello, segnato dall’assassinio di Antonino Saetta, il magistrato che avrebbe dovuto presiedere la Corte. Il verdetto, in questo caso, non fu quello sperato, infatti quasi tutte le condanne vennero ridotte: 86 persone furono assolte, gli anni di reclusione scesero a 1576, e gli ergastoli da 19 passarono a 16. Il dietrofront operato in appello non fu confermato in Cassazione, dove, invece, il 30 Gennaio del 1992, vennero confermate tutte le condanne stabilite in primo grado e annullate le assoluzioni pronunciate in appello.
Da quel momento nessuno negherà più l’esistenza della mafia, nessuno parlerà più di storie raccontate per spaventare i bambini e, soprattutto, nessuno penserà più che la mafia sia invincibile e intoccabile. Il mito è stato sfatato. Quel sistema di valori che per anni si era presentato come alternativa all’ordinamento giuridico statale, che aveva imposto obbedienza con mezzi coercitivi, che si era macchiato del sangue di giudici, agenti dell’arma, imprenditori, uomini onesti e intellettuali, agendo nella più totale impunità, per la prima volta veniva citato in giudizio, e chiamato a rendere delle sue azioni di fronte allo Stato italiano. Quel giorno, non soltanto si prendeva atto della realtà che imperversava la Sicilia, ma si dichiarava – manifestamente – la volontà di contrastare il fenomeno, non più attraverso il coraggio di singole persone che per onestà intellettuale si opponevano alla mafia, ma come sistema, come Stato che esercitando la sua funzione giudiziaria, provava a rimediare agli anni in cui era stato assente. Ciò non significa assolutamente che l’intero apparato statale si fosse deciso a dichiarare guerra alla mafia perché, infatti, come si saprà, di lì a poco nuove stragi saranno organizzate e persino una Trattativa avrà luogo. Ciò che si intende sottolineare è che per la prima volta una porzione, sebbene minima, dell’apparato statale, rappresentato dall’Ufficio Istruzione di Palermo, organizzò, studiò e condannò il fenomeno mafioso, aprendo la strada alla lotta alla mafia perseguita dallo stato, quella fatta di leggi, provvedimenti, e processi.
Rocco Chinnici, ucciso da Cosa Nostra il 29 Luglio del 1983, fu l’ideatore di questo modus operandi, ipotizzò, cioè, per primo, la necessità di canalizzare le indagini e i progressi su di esse nelle mani di un unico gruppo di magistrati, il cosiddetto Pool Antimafia, che esclusivamente e primariamente poteva occuparsi di mafia. L’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, così, rinomato anche dai colleghi americani, divenne davvero il centro pilota della lotta alla mafia, producendo, come sintesi e risultato finale del suo lavoro, lo svolgersi del Maxiprocesso che, di fatto, ha rappresentato lo scacco matto alla mafia.