25 Novembre 2023
“La prima impressione che si ha leggendo queste lettere è che sono estremamente divertenti: anzi dirò che Le italiane si confessano è stata la più divertente lettura che io abbia fatto in questi ultimi anni”. Non è la recensione di una commedia all’italiana di vecchio stampo, né di un libro di confessioni segrete, né di barzellette un po’ spinte, nemmeno di una rivista femminile vecchio stampo. Le italiane si confessano è un testo di Gabriella Parca, edito per la prima volta nel 1959 – disponibile attualmente per Edizioni Nottetempo – in cui vengono raccolte tutte le lettere mai pubblicate sui settimanali femminili perché ritenute eccessivamente scabrose. Tutte parlano di tradimenti, oppressione, violenza di genere. Tutte mostrano una società patriarcale, fatta di donne costrette nel quotidiano ad affrontare continuamente la sottomissione. Nulla che abbia a che fare con una lettura leggera. L’abitudine alle dichiarazioni contemporanee fatte dagli uomini sulle violenze di genere, spinge chi legge a pensare ad una dichiarazione proveniente da qualcuno privo di strumenti adatti a comprendere le dinamiche di genere e di comprendere il proprio tempo, di un uomo dichiaratamente maschilista, di un unicum.
La citazione è di Pier Paolo Pasolini, lo stesso intellettuale di Comizi d’amore, Mamma Roma, e tutte le opere che hanno contribuito a costruire per le generazioni attuali, un’eredità fondamentale per praticare libertà di pensiero e antifascismo. Dopo svariate ristampe, Gabriella Parca chiese la rimozione della prefazione. Le stesse dinamiche, pervadono molte frange delle dichiarazioni di svariati intellettuali del 900, quegli intellettuali che rappresentano ancora un baluardo di cultura e di liberazione da determinate sovrastrutture. Italo Calvino, scrittore d’avanguardia, antifascista, in “Perché leggere i classici” del 1991, dichiarava di amare Jane Austen anche se “non la leggo mai, ma sono contento che ci sia”. Un’autrice che parlava di condizione femminile, società maschilista e consenso nelle relazioni familiari, non era colpita o denigrata da Calvino, ma nemmeno letta e commentata. Questo stesso deficit culturale, propagatosi nel tempo, ha portato nel 2022 ad un finanziamento ridotto da parte del MIBACT per il film sulla violenza domestica “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi.
Che Pasolini, Calvino, alcune/i membri della commissione MIBACT non siano dichiaratamente maschilisti rispetto alla rappresentanza politica odierna, è un’informazione che lascia il tempo che trova. Lo slogan “lo stupratore non è malato, ma un figlio sano del patriarcato” è l’emblema di quanto le strutture sociali pervadano tutta la società, e tutti gli uomini che la abitano, inconsciamente la ereditano. La matrice della dimenticanza del tema della violenza di genere e del femminicidio nell’informazione mainstream, almeno fino a questo momento, o della sottovalutazione dell’atto, è la subordinazione. La subordinazione della donna, è l’input per arrivare alla cuspide della struttura patriarcale, l’uccisione della donna, l’evoluzione massima dello “stai zitta”. Zitta, mai più viva, e anche rea di esserlo stata, subordinata, di non aver capito, di aver ceduto al suo narcisismo, di aver lei avallato i suoi comportamenti. Quella subordinazione attanaglia tutto il genere femminile, ospite indesiderato di questo tempo e di tutti i tempi, le cui opinioni e istanze sono continuamente al vaglio dell’opinione e della ragione/logica maschile. Costrette ad una vita ipervigile, a destreggiarsi, consapevolmente o no, tra gli ostacoli quotidiani del patriarcato, alla ribalta dell’infotainment sole se in ritiro, doloranti e piangenti.
Ma dal femminicidio di Giulia Cecchettin, una vicenda durata settimane di cui tutte conoscevano l’epilogo, è emersa la lotta. Una lotta sempre esistita, ma diventata un emblema grazie alla nuova narrazione proposta dalle donne e da Elena Cecchettin, la sorella, che ha collettivizzato il suo dolore rendendolo politico, donandolo in trasmissioni di ogni fazione, trasformandolo in azione e in progetto. Le motivazioni della Cecchettin, giudicate da alcuni giornalisti ideologiche, conosciute soltanto da chi bazzica il femminismo, sono diventate un manifesto, un bignami per tutte, e per tutti gli uomini che provano a decostruire il proprio maschilismo interiorizzato. Seppur dovesse, come tutte le altre storie, sparire il nome di Giulia Cecchettin dai rotocalchi e dalle piattaforme social, quella rabbia percepita e invogliata da Elena Cecchettin rimarrà uno strumento per ribaltare questa dinamica standard. L’invito a non partecipare ai minuti di silenzio, ma a “bruciare tutto”, oltre a produrre manifestazioni, cortei, marce, fiaccolate, ha creato consapevolezza maggiore rispetto al proprio vissute. Le chiamate al 1522, numero gratuito e attivo 24 h su 24 che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking, sono aumentate dopo l’ultimo femminicidio. La descrizione di quei meccanismi, dei ricatti emotivi messi in atto dal femminicida, la retorica dell’uomo innamorato e il senso del possesso, raccontati in maniera così diretta, hanno fatto sì che giovani donne e le loro famiglie si riconoscessero in quella narrazione, trasformando la paura e la vergogna in atto.
Sembra un nuovo capitolo per le denuncia della violenza di genere, forse sembra soltanto, o forse è effettivamente una pagina diversa della discussione sul tema, dove quei simboli annacquati e sfruttati dalle governance politiche come baluardo di inclusione e rispetto, vengono rivendicati dalle vittime di violenza, di tutte le declinazioni della violenza di genere, che riguarda il vissuto di tutte e l’educazione di tutte e tutti. La didattica del sopruso deve essere scardinata, il colore rosso, i manifesti, le panchine e le sedie, diventano un veicolo di richiesta di una nuova educazione, di una rivoluzione di ogni assetto sociale, di una voce nuova e vitale, al di là della sofferenza, che chiede di essere vista e di non essere mai più né domata, né persuasa.