12 Giugno 2017
Chissà se ai sogni bisogna prestare fiducia, li immagino impilati e imbottigliati, pronti ad essere aperti e tirati fuori dal collo della bottiglia. Da adulti non si sogna più. Ho così tanto a cui pensare che non dormo bene da settimane. Dovrei stirarmi le camicie perché venerdì non avrò nulla di pulito da indossare, dovrei fare quei calcoli, sbarazzarmi di quella pila di cartacce che mi attende sulla scrivania. Da adulti non si spera più in nulla e neanche si tenta di cambiare le cose perché ci si convince che vadano così. Non sogno da quando ho perso la voglia di essere migliore, da quando mi sono convinto che stare da soli sia triste ma più facile. Eppure qualcosa deve essere cambiato. Stanotte sono salito su un vascello di chimere, galleggiavo tra i sogni abbandonati come carcasse di navi una volta in viaggio verso terre lontane.
Era uno scenario palustre con le canne e le luci soffuse delle lucciole, guardavo all’orizzonte e ti ho vista all’altezza del sole come un miraggio. Sedevi alla riva circondata dalla natura viva, eri vestita di nulla ma mai nuda. Non immagini il torpore che mi si è acceso nel petto, ho dimenticato di avere i piedi immersi nell’acqua putrida, ho dimenticato che il vascello stesse affondando. Che sciocco, ho sognato un vascello di carta. Stavo affondando e ti guardavo, pareva che stessi soffrendo e il viso ti si faceva bianco come chi lascia la vita, come le rose che perdono i petali. Che stessi aspettando qualcuno con il quale guardare la cresta dell’acqua o forse qualcuno che venisse a salvarti, abbandonata come Arianna su un’isola? Non ti potevo salvare, pesavo poco più di un filo d’erba, stavo per affogare, non ho mai imparato a nuotare perché ho paura che l’acqua mi mandi giù e mi inghiotta, ma stavolta ho pensato che non avesse senso temere per la mia dipartita perché mi sarei svegliato nel mio letto di lì a poco.
Prima di morire per finta sono rimasto con gli occhi aperti nell’acqua, non bruciava e potevo vederti mentre ti facevi sempre più lontana. Le fronde immerse nell’acqua mi carezzavano come mani umide, tutto intorno non vi era più nulla, una luce gialla mi trapassava la pelle come se mi venisse da dentro al petto. Stavo annegando nel mio cuore palustre circondato dalle fronde pesanti. Mi chiedevo se potessi vedermi, forse non puoi, hai gli occhi troppo piccoli per abbracciare il mondo ed io sono fuori dal tuo campo visivo. Soffrivi nella tua porzione di riva, una creatura troppo vulnerabile per non venir distrutta dal nulla ma troppo forte per non sopravvivervi. Se solo mi avessi visto sono certo che ti saresti tuffata a salvarmi, sono certo che mi avresti accolto nella tua barca e avremmo remato fin dove la mia mente avesse potuto immaginare.
Ma io sono nel mio fango e tu coperta di sole, tenuti lontano dalla diversità, da ciò che è giusto, dalla paura. Ricordo che negli ultimi momenti che mi separavano dal risveglio ho pensato che nella distanza che intercorre tra due cuori il vento si porta via le parole non dette, ci avviciniamo per brevi intervalli ma siamo relegati entrambi in parti di mondo estranee, destinati a ruotare sfiorandoci su sipari momentanei che calano con la notte. Alla fine ho aperto gli occhi ed era giorno, ho guardato all’altezza dell’orizzonte e nel sole che compariva tra le montagne ho visto il tuo viso. Sorridevi.
Miriam Barbone