22 Febbraio 2020
“Immaginate un paese che prende il nome da un albero. Pau Brasil. Il suo inchiostro rosso lo portò quasi all’estinzione. Ne resta solo il nome. Un Paese in cui morivano più schiavi di quanti ne nascessero. Era più economico portarne altri dall’Africa. Un Paese in cui ogni ribellione è stata brutalmente repressa e la Repubblica ottenuta tramite golpe militare. Un Paese che dopo 21 anni di dittatura stabilì la propria democrazia e divenne fonte d’ispirazione nel resto del mondo. Sembrava che il Brasile avesse finalmente spezzato la maledizione. E invece ci risiamo. Un presidente incriminato, un altro in carcere e la nazione di nuovo diretta verso il passato autoritario. Oggi sento la terra aprirsi sotto i miei piedi. Temo che la nostra democrazia non fosse… che un sogno effimero”.
Con questa dichiarazione, accompagnata da una panoramica sull’ingresso e successivamente all’interno di Palácio Da Alvorada, Petra Costa dà inizio al suo documentario “Democrazia al limite”, candidato agli Oscar 2020. C’è qualcosa che però lo differenzia dagli altri documentari e lo spettatore riesce a percepirlo fin da subito, il tono di voce della regista che accompagna le prime immagini del palazzo presidenziale, che diventerà uno dei protagonisti della pellicola, non è un semplice elenco di fatti. È una questione personale, intima, si riesce a capirlo fin da subito e diventa certo quando vengono pronunciate le ultime parole. Il tono rassegnato, le riprese a 360° gradi, è come se lo spettatore fosse lì, a vedere gli ideali di una democrazia sgretolarsi uno ad uno ed un passato di repressioni e proteste tornare a galla, stavolta più agguerrito. Petra Costa e la democrazia brasiliana sono coetanee, alla sua nascita la dittatura militare compiva vent’anni e i presidenti non potevano essere eletti dal popolo. I primi ricordi della sua infanzia insieme ai suoi genitori hanno come sfondo folli urlanti di protesta contro la dittatura, dove il popolo combatteva affinché fosse riconosciuta il diritto di poter eleggere il proprio presidente, colui che dovrebbe rappresentarli anche nel resto del mondo. Due realtà opposte vive Petra, nipote di uno degli imprenditori edili più noti in Brasile e figlia di militanti costretti alla clandestinità durante la dittatura.
Petra cresce con gli ideali di una democrazia trasparente e giusta, quella che sembra delinearsi con l’elezione del presidente Luíz Inacio Lula da Silva detto Lula, fondatore del PT (Partido dos Trabalhadores, dei lavoratori), nel 2003. Una vittoria che gli è costata, dopo i tre tentativi falliti rispettivamente nel 1989, 1994 e 1998. Una conquista dal sapore agrodolce, perché per poter essere eletto, Lula si ritrovò costretto ad accettare un compromesso dando credito anche agli imprenditori e non solo ai lavoratori sottopagati. Lula viene eletto, anche grazie al primo voto di Petra accompagnata fieramente dalla madre alle urne, e la speranza che le numerose ingiustizie presenti nel Paese fossero finalmente affrontata inizia a crescere sempre di più. Eletto con il 61% dei voti, la sua coalizione ha meno della metà dei rappresentati in Congresso, e presto il suo partito viene accusato di corruzione. Lui riesce a distanziarsi dallo scandalo, ma i suoi possibili successori e il capo di gabinetto sono costretti a rassegnare le dimissioni. Ed è qui che entrano ancora di più in scena il suo carisma e la disponibilità al compromesso, perché, pur di rimanere in gioco, Lula ricorre ad una alleanza con il partito più forte, il PMDB (Movimento Democratico Brasiliano). Successivamente, forma alleanze con la vecchia oligarchia brasiliana e si ritrova forte nelle stesse pratiche che aveva sempre criticato.
Il senso di giustizia non lo abbandona del tutto, infatti abolisce la schiavitù e aiuta circa 20 milioni di persone ad uscire dalla povertà con il programma Bolsa Família che concedeva un sussidio ogni mese alla famiglia più povere. Diventa un esempio, tanto che anche l’allora presidente degli USA Barack Obama dichiara, “Ecco il mio beniamino. Lo adoro!”, durante un loro incontro. Uno dei maggiori successi a lui attribuiti durante i suoi mandati è la scoperta di una delle più grandi riserve di petrolio del pianeta (Petrobras), finanziatrice di programmi sociali che si rivelò, negli anni, più una maledizione che una benedizione. Dopo due mandati consecutivi, decide di lasciare il posto a Dilma Rousseff, che viene eletta con un distacco del 10% sua succeditrice, il 30 ottobre 2010. Militante clandestina con un passato in carcere, come la madre di Petra, in più fu torturata consecutivamente per 22 giorni. Primo mandato di una presidente donna, un moto di orgoglio ed entusiasmo, anche questi accompagnati da una sfumatura amara. Alla destra di Dilma, quando sfila davanti alle telecamere per dare l’addio metaforico a Lula e sua moglie, vi è il vicepresidente Temer, politico conservatore e leader del partito PMDB che per tutta la durata delle riprese fa gesti controllati, le mani strette che celano un’azione che si sarebbe rilevata a breve, simile ad una congiura. “Se Gesù venisse in Brasile, sarebbe costretto ad allearsi con Giuda”, fu la risposta di Lula quando gli venne chiesto il motivo di quell’alleanza con un partito che poco o nulla c’entrasse con il suo.
Tutto sembra andare per il verso giusto, fino a quello che la regista definisce cambiamento sismico. La protesta per l’aumento del prezzo dei mezzi pubblici, a causa della repressione della polizia e grazie ai social media, si trasforma in una delle più grandi dimostrazioni nella storia del Paese. Le strade ricominciano a vivere dopo 20 anni di silenzio e la società inizia lentamente a dividersi, le bandiere e i simboli del PT vengono vandalizzati e derisi, anche da coloro che prima erano i loro maggiori sostenitori. Dilma volle dichiarare guerra aperta alla corruzione, con un tentativo disperato di salvare la credibilità del governo, dopo un rallentamento dell’economia dovuta alla riduzione dei tassi di interessi delle banche imposta stesso da lei. Tramite l’approvazione di una serie di leggi anti-corruzione, si diede il via ad all’indagine Autolavaggio che coinvolse anche la Petrobras e viene scoperta una fitta rete di corruzione tra la società petrolifera, le ditte di costruzioni e i principali partiti politici. Arresti, condanne condotti da Sérgio Moro giudice federale ispiratosi all’operazione italiana Mani Pulite, in cui Dilma non interferisce e il suo non agire ne segna la fine. Aécio Naves, candidato rivale di Dilma nel 2014 non accetta la sconfitta e pretende prima l’annullamento dei voti che successivamente si trasforma in una denuncia di impeachment. Dilma viene tradita, come Giulio Cesare nell’opera di Shakespeare anche da chi credeva alleati. Sospesa per 180 giorni dalla carica di presidente, entra in scena il suo vice Michel Temer che successivamente diviene presidente a tutti gli effetti nel 2016, quando il Senato decreta la destituzione di Dilma Rousseff.
Dopodiché entra in scena Jair Bolsonaro, che esalta i torturatori e gli assassini più spietati della dittatura e sostenitore della detenzione di armi in casa per la difesa personale. Bolsonaro, insomma, rappresenta tutto ciò a cui il popolo brasiliano aveva dichiarato guerra e che sembra soffrire di una grava amnesia. Con un tentativo disperato per non far cadere anche l’ultimo tassello del suo senso di democrazia, Lula rientra in scena e prova a candidarsi nuovamente alla carica di presidente, ma il giudice federale Moro lo prende di mira e pur non avendo prove fisiche della sua colpevolezza, lo accusa di corruzione e ciò contribuisce alla scesa di Bolsonaro come presidente. Perché in ragione della condanna, i suoi diritti politici risultano sospesi in conformità con la “Legge Fedina Pulita”: “la sua candidatura è virtualmente nulla, perché la legislazione brasiliana impedisce che i condannati in seconda istanza, come il suo caso, possano presentarsi a cariche elettive”. Il popolo brasiliano è ormai sempre più diviso, tra i sostenitori di Bolsonaro che festeggiano con tanto di fuochi d’artificio la sua vittoria all’elezioni e quelli del PT che cercano in tutti modi, anche fisici, di impedire a Lula di consegnarsi alle autorità.
All’orizzonte, la prospettiva di un futuro ancora più buio di quello che è stato il passato e per cui, persone come Dilma, Lula e i genitori di Petra, hanno combattuto. La domanda che si pone la regista “Dove troveremo la forza di camminare tra le macerie e di ricominciare da capo?”, nel finale del documentario, è la stessa che accompagna anche lo spettatore che per tutto il tempo ha avuto la sensazione di essere tra i deputati al Senato, ad urlare insieme ai cittadini riversi in piazza che invocavano una democrazia chiara e giusta, una in cui, come disse un antico scrittore greco, i ricchi si sentono minacciati. “Cosa si fa, quando cade la maschera della civiltà e ciò che rivela è un’immagine di noi stessi ancora più inquietante?” Un interrogativo che non dovrebbe essere posto solo al limite di una democrazia e che rimarrà, probabilmente per molto tempo, senza risposta.
Annaclaudia D’Errico