15 Maggio 2020
Ci sono tante cose che l’umanità sta cercando di imparare dall’esperienza della pandemia Sars-Cov-2. Il valore degli affetti, la necessità di avere un luogo sicuro in cui stare, l’importanza di avere accesso a risorse elettroniche che consentano di continuare a progettare la propria vita in casa, l’urgenza di risanare interi settori pubblici (come la sanità). E, per i più attenti, il rispetto dell’ambiente. Che in casi come questi gioca un ruolo tutt’altro che scontato.
Le malattie infettive che si trasmettono da un animale a un uomo (e viceversa) hanno un nome specifico – zoonosi – e sono presenti dall’inizio dei tempi. Molte delle malattie a noi note come il vaiolo, difterite, ebola, influenza aviaria hanno origine animale. Nel XX secolo si sono manifestate più di frequente fino al picco raggiunto negli anni 80 (secondo uno studio pubblicato sulla rivista Nature) con la scoperta dell’HIV, responsabile dell’AIDS, ereditato da una scimmia. Come è pacifico ritenere che la diffusione repentina della pandemia sia frutto dei collegamenti prodotti dalla globalizzazione, così allo stesso modo è possibile sostenere che l’insorgere stesso di zoonosi sia a volte in parte da addebitare all’uomo.
Un agente patogeno – comunemente un virus – che vive all’interno di animali selvatici non ha la possibilità di per sé di attaccare un essere umano ma a determinate condizioni ciò può diventare possibile. Sebbene sia nell’ordine delle possibilità che una zoonosi abbia origine dal contatto diretto tra un animale selvatico e un essere umano, è decisamente più comune la possibilità che il passaggio avvenga tramite un intermediario, vicino ad entrambi, ossia un animale addomesticato che consenta al virus per mezzo di una mutazione naturale di spostarsi dall’animale selvatico all’essere umano. Le condizioni affinché ciò avvenga sono spesso generate proprio dalla società.
Il contatto con le specie selvatiche è spesso dovuto alla prepotenza dell’essere umano, della sua volontà di appropriarsi di spazi che non gli appartengono. Attraverso la deforestazione, per la creazione di campi agricoli o di allevamento, si spingono gli animali a convivere in spazi più stretti e ad aumentare il rischio di trasmissione di virus già tra di loro. Quando poi negli spazi creati artificialmente dalla deforestazione ci si organizza per l’attivazione di un allevamento intensivo si permette ad animali selvatici e addomesticati di entrare in contatto tra loro. In Malesia, solo ventuno anni fa, è accaduto questo: un allevamento intensivo di suini creato ad hoc tramite deforestazione ha consentito che suini e pipistrelli, abitanti della zona e affetti da Nipah, entrassero in contatto tra loro. I suini hanno mangiato i resti delle mele di cui si sono nutriti i pipistrelli e questo ha permesso la trasmissione del virus dai pipistrelli ai suini che a loro volta hanno consentito la trasmissione agli allevatori. Sono morte 105 persone. Trattandosi di una zona in cui non non si mangia molta carne suina, vien da sé che la creazione dell’allevamento avesse lo scopo di esportare il cibo e quindi intenti economici.
Come un’ordinaria igiene personale può far drasticamente diminuire le possibilità di contrarre un virus, così uno stile di vita economico e commerciale può ridurre le possibilità d’insorgenza di una epidemia o pandemia. Lasciare gli animali selvatici liberi nel loro habitat, vietare la deforestazione, ripensare agli spazi per evitare sovraffollamenti urbani, preferire cibo locale o alternative al consumo eccessivo di carne, garantire igiene, sanità e assistenza sanitaria ad ogni persona al mondo: tutto questo può fare la differenza. Ora lo sappiamo.
Antonella Maiorino