16 Maggio 2019
“Quello che conta oggi nella vita è la reputazione”.
Sembra una di quelle frasi-post che girano sui social e che qualcuno condivide perché vi intravede una qualche forma di saggezza. Al pari della versione politica “governo non eletto dal popolo”: insomma, forse nella vita ci siamo passati tutti almeno una volta, ma poi per fortuna siamo cresciuti. Eppure, qualcuno ha pensato che fosse appropriato dirlo davanti a docenti e studenti in occasione della presentazione del progetto UnisAmbiente. E se state immaginando il peggio, fate benissimo: a dirlo è stata la più alta carica dell’ateneo, il Rettore, dopo aver non troppo velatamente criticato le manifestazioni ambientali. “Le classifiche sono fondamentali. Sono la prima cosa che guardano gli studenti (stranieri e non) quando vogliono iscriversi all’università”.
Ognuno ha i propri riferimenti culturali, certo. Un evento dedicato all’ambiente poteva aprirsi e/o chiudersi prendendo in prestito una qualsiasi delle tantissime espressioni coniate da celebri autori per descrivere il rapporto indissolubile tra l’uomo e la natura, ma si è invece parlato di reputazione. In apparenza potrebbe sembrare solo un’espressione usata lì per lì, ma si tratta di un modo di fare politica che l’ateneo ha sperimentato nel corso di questi ultimi anni.
È chiaro che sia facile cercare su internet gli ultimi prodotti del ranking e sulla base di questi farsi un’idea di quali siano le migliori università, ma qui ci sono delle considerazioni di base che non possono essere ignorate. I criteri con cui le classifiche sono redatte sono diversi a seconda dell’ente che le redige e non posseggono alcun carattere scientifico certo, al punto da essere criticati in molti luoghi accademici. Per non tralasciare la considerazione che le strutture accademiche, in questo modo, entrano in concorrenza tra loro piuttosto che avviare proficue collaborazioni. Attraverso questo tipo di approccio si è spesso erroneamente associato la posizione alta in classifica con la sicurezza dell’efficienza dei servizi. Un accostamento che gli organi di governo dell’ateneo non possono permettersi di prendere in considerazione. Se un metro di giudizio deve esserci, questo deve essere messo in campo dagli studenti, dai docenti e dal personale tecnico-amministrativo, ossia dai soggetti che quotidianamente vivono il campus e ne conoscono i lati positivi e negativi. Si può essere anche i primi in tutte le classifiche, ma se i problemi sono all’ordine del giorno non possono far altro che essere risolti. Sono stati menzionati gli studenti internazionali, eppure in occasione delle universiadi (evento anche d’immagine) le loro esigenze sono state del tutto messe da parte. Magari uno studente che non conosce l’ateneo sì, farà affidamento su un articolo di giornale che descrive l’Unisa come un campus americano, ma quelli che hanno la possibilità di confrontarsi con chi è stato qui sentiranno di una struttura i cui servizi si fermano nel pomeriggio, che resta isolata di sera e nel fine settimana e di tantissimi problemi burocratici. E questo è frutto di un lavoro basato sull’immagine e non sui servizi dell’ateneo.
Il caso delle addette alle pulizie è emblematico di questo tipo di approccio: nonostante le tante manifestazioni e proteste, il Rettore non ha mai fatto conoscere la sua posizione in merito alle difficoltà riscontrate dalle lavoratrici con la nuova azienda. Non è mai sceso al loro fianco, non ha mai avviato un dialogo, non ha mai pensato di dover far qualcosa per farle sentire parte di questa comunità accademica. Ha soltanto declinato il lavoro e la responsabilità alla Fondazione Universitaria. Ha provato, cioè, a non dar risalto alla problematica: non sia mai che l’Italia sappia che l’ateneo non ha a cuore i suoi dipendenti.
È toccato anche agli studenti. Non a tutti, ma ad una categoria specifica: quella dei fuori-corso. Ci sono colpe da dividere con il sistema accademico italiano, certo, ma il continuo ribadire di doversi laureare in tempo non aiuta a creare un ambiente sano per i tanti iscritti che vogliono completare gli studi assecondando i propri tempi e non quelli imposti dal corso di laurea.
L’università non può continuare ad essere solo un luogo fisico dove gli studenti seguono corsi e sostengono esami. Deve iniziare ad essere innanzitutto un luogo sociale in cui sperimentare le idee e coltivare le proprie passioni. Indipendentemente da tutto. Ecco, allora, perché l’università non deve pesare sulle tasche o sui problemi personali degli studenti chiedendo a questi di arrangiarsi come possono perché devono ad ogni costo laurearsi in tempo. Ecco perché l’ateneo non può crogiolarsi sulle posizioni alte in classifica o sull’aspetto esteriore del campus, e deve invece domandarsi con maggiore frequenza quale tipo di miglioria si può ancora apportare per giovare la frequenza degli studenti. Ma tutto questo non si fa se si pensa solo e continuamente al nome, all’immagine, alla reputazione della struttura. Si finisce solo per creare un’immagine illusoria che lascia in seguito solo tante difficoltà da superare. Ma non solo: un ateneo che non cerca di capire e risolvere i problemi delle sue componenti sarà un luogo in cui il malcontento porterà a divisioni e scontri interni. Uno spazio vissuto male sarà uno spazio di cui si parlerà male: esattamente ciò che il Rettore vorrebbe evitare ma che inevitabilmente accadrà se si continua a perseguire una politica d’immagine e apparenza.
E soprattutto non è un messaggio positivo da lanciare alle nuove generazioni. Dire che la reputazione è ciò che conta oggi nella vita significa dire agli studenti che oggi si stanno formando che non è importante quello che hanno dentro, ma solo quello che sono in grado di mostrare. E a preferire l’apparenza alla profondità. Un’università che sia legittimata a chiamarsi tale, insegna esattamente l’opposto: a coltivare una propria percezione interiore indipendentemente da quello che gli altri vedono.