28 Novembre 2018
L’atteggiamento comune degli italiani nei confronti di persone con una carnagione diversa dalla propria, si ferma molto spesso al mero pensiero associativo: “non bianco=non italiano, migrante, delinquente”. L’individualità sparisci dietro un’etichetta appiccicata con insistenza su tutti quei visi che rappresentano un ponte tra culture diverse, raccogliendo in Italia tutte le componenti che costituiscono la propria identità. Ne parliamo con Stefanie Sonan, autrice di Afroitalian Souls, la più importante piattaforma creata per essere una finestra sul mondo Afroitaliano e sull’eccellenza della diaspora africana.
L’ultimo articolo pubblicato da Afroitalian Souls (di cui lei è anche autrice) si intitola “Gli italiani invisibili”, in cui denuncia una scarsa considerazione nei confronti di tutti i giovani di seconda generazione. Perché è ancora così complicato, per la maggior parte degli italiani, comprendere che è possibile essere “italiano”, ma con “origini” diverse?
Secondo la mia umile opinione, il popolo italiano è talmente attaccato ai propri usi e tradizioni da sfociare nell’etnocentrismo. Esiste solo l’italiano purosangue, mentre tutti gli altri sono soltanto delle sottocategorie che si muovono sul territorio. Per certi è difficile accettare le seconde generazioni come membri della società, forse perché temono che l’Italia che conoscono possa cambiare aspetto e che la sua identità vada perduta. Guardiamo come è stata trattata l’Onorevole Kyenge: una nera al Parlamento italiano? Non sia mai! Oppure il caso del medico di origini camerunese, Andi Nganso, dal quale una paziente non voleva essere toccata perché nero. Sarà anche per il fatto che fino a qualche decennio fa, gli stranieri in Italia erano solo stranieri: facevano lavori umili, a volte delinquevano, e restavano ai margini della società. Oggi, invece, questi stranieri hanno avuto dei figli, che sono italiani a tutti gli effetti e che esigono di essere trattati come tali. Penso che sia una questione di tempo prima che l’Italia accetti e abbracci questo inevitabile cambiamento.
Sul vostro sito non appaiono soltanto riflessioni su determinati fenomeni politico-sociali: il vostro lavoro editoriale e social si occupa anche di capelli, brand che trattano prodotti per pelle scura, eventi dedicati alla cultura africana in Italia. Siete un importante riferimento per la comunità afroitaliana e africana. Perché invece i mezzi di comunicazione di massa di questo paese sono così carenti nel fornire riferimenti per fruitori di altre origini?
Quella degli afroitaliani è una generazione giovane, che cerca di soddisfare i bisogni della comunità nera attraverso i mezzi che conosce meglio, cioè Internet e i social. La rete è libera e aperta a tutti, perciò non ci sono particolari vincoli di target. Invece, con i media tradizionali, il discorso è diverso: la televisione, ad esempio, essendo ancora al centro della nostra quotidianità, genera contenuti mirati al pubblico italiano nel suo complesso, e si cura poco delle minoranze. Perché pubblicizzare prodotti adatti alla pelle nera quando la stragrande maggioranza è bianca? Perché parlare di problemi che toccano la comunità musulmana quando l’Italia ha ben altre difficoltà? Tutto riconduce al discorso di prima: finché l’Italia stessa non riconoscerà l’importanza delle comunità straniere, i media continueranno a nasconderle.
I modelli appartenenti alla comunità africana scarseggiano, abbondano invece in tv e sui social modelli caucasici e spesso estremamente stereotipati. Date le politiche adottate dall’attuale governo, alla pelle nera sono spesso legati episodi riprovevoli, mal descritti rispetto alla possibile cronaca di un crimine commesso da un italiano bianco, o addirittura di “accidentali” dimenticanze nel momento in cui personalità di origine africana producano successo e positività (mi riferisco alla pubblicità Uliveto). Siamo, a questo punto, di fronte ad una vera e propria “svalutazione” in base al colore della pelle? Si potrebbe parlare di “colorism”?
Non parlerei di colorismo, perché esso è un fenomeno interno alle comunità di colore (africani, sudamericani, asiatici). Si tratta di una forma di discriminazione basata sulla carnagione: chi ha un colorito chiaro, olivastro, simile alle persone miste, è privilegiato perché ha un aspetto più “esotico” rispetto a chi, invece, è effettivamente nero. In Italia, la discriminazione avviene a priori verso chiunque non sia bianco! Si ha ancora una visione stereotipata e distorta dello straniero, soprattutto dell’africano. Il colore della pelle rimanda subito all’essere inferiore, al povero, all’ignorante. Come avete ricordato, i fatti dell’Uliveto mi danno ragione: Paola Egonu e Miriam Sylla sono state fondamentali per il successo della squadra, eppure sono state nascoste come se non fossero mai esistite. E nonostante le polemiche, questo atto di puro razzismo è stato minimizzato. Minimizzare è ciò che alimenta la alienazione delle minoranze. Se una comunità in svantaggio come quella nera fa sentire la propria indignazione, non bisogna zittirla, ma darle spazio e cercare di capire. Solo così si possono abbattere le barriere che ancora impediscono l’integrazione nel nostro paese.
Oltre alla svalutazione, la percezione alterata che l’italiano medio ha delle persone africane tende a produrre una vera e propria abolizione dell’identità di un individuo con determinate origini: c’è un’estrema tendenza a considerare un uomo o una donna africana soltanto come appartenente ad un gruppo (esempio: tutti gli africani parlano “l’africano”) o il voler attribuire a queste persone per forza un’etichetta spesso completamente fuori contesto (africano=migrante, africano=spacciatore). Partendo dalle vostre esperienze personali e dalle opinioni raccolte grazie al vostro lavoro, come può un giovane di seconda generazione cercare la propria identità in un paese che tenta spesso di cancellarla?
Penso che la percezione errata dell’africano agli occhi dell’italiano medio sia dovuta a una scarsa conoscenza. È più semplice credere che tutti i neri vengano da una grande e unica casa chiamata Africa, piuttosto che fare uno sforzo e guardare agli africani come singoli individui con una storia. Per questo è importante il confronto: uscire dalla propria bolla e cercare di conoscere l’altro, capire ciò che lo rende diverso e sfruttarlo come una risorsa per crescere. Per i ragazzi di seconda generazione ci vuole un passo in più. Noi non abbiamo bisogno del confronto perché siamo noi stessi il confronto! Siamo il perfetto ponte tra due culture diverse, e la prova che l’immigrazione ha anche lati positivi. Trovare la propria identità è semplice: un afroitaliano è un italiano a tutti gli effetti. Ci tengo a dirlo perché io stessa ho attraversato una specie di crisi d’identità: sapevo di essere italiana, ma allo stesso tempo i miei coetanei bianchi non perdevano occasione per ricordarmi che ero diversa. Perciò ho cercato di relazionarmi con i miei coetanei ivoriani (i miei genitori sono della Costa d’Avorio), ma anche loro si divertivano a chiamarmi “la bianca”. Alla fine sono giunta alla conclusione che si può essere italiani e neri senza sentirsi in difetto. La chiave sta nell’affermare il proprio io. Se saremo i primi a farlo, il resto della società non potrà che imitarci.
In questo momento storico, l’immigrazione dal continente africano è uno dei fenomeni più contestati dalla politica e dalla maggioranza degli italiani. Afroitalian Souls, raccontando le eccellenze della diaspora africana, può rappresentare un ottimo sistema per veicolare informazioni corrette, smentire bufale e lanciare messaggi positivi. È tuttavia evidente che l’Italia, insieme ad altri paesi europei, non riesca a fare i conti con meccanismi schiavistici e di sottomissione ancora presenti in moltissimi paesi africani. Cosa rispondete a chi parla del fenomeno migratorio definendolo una “invasione”?
Credo che usare parole come “invasione” e “emergenza” sia solo una tecnica che i politici populisti usano per generare paura tra la gente. Paura del tutto ingiustificata, tra l’altro. È vero che negli ultimi decenni c’è stato un incremento dei flussi migratori verso il nostro e altri paesi, ma è anche vero che il fenomeno sia stato spesso ingigantito dai media per creare panico. È giusto che l’Italia e l’Europa prendano provvedimenti fronte all’immigrazione incontrollata e clandestina, tuttavia non è suscitando il timore e la rabbia della gente comune che si risolve il problema. Per quanto riguarda, invece, alcuni meccanismi contrari agli usi europei, posso capire da dove sorgano certi timori. In Africa convivono diverse culture: quella radicale e tradizionale, quella introdotta dalla religione islamica e quella occidentale imposta durante il colonialismo. Purtroppo, molto spesso queste culture entrano in conflitto. Ad esempio, nelle comunità rurali africane, certe usanze violano i diritti fondamentali dell’uomo, che stanno alla base delle leggi europee. Mi riferisco alla condizione della donna o ai maltrattamenti minorili. Probabilmente è a questo che ci si riferisce quando si parla di invasione: si teme per la stabilità sociale europea e per eventuali minacce alla cultura (es. attentati terroristici). Ma la storia ci insegna che l’Europa è sopravvissuta a dittature, a guerre, a vere e proprie invasioni, senza perdere i suoi valori. Non sarà qualche migliaio di migrante a metterli in pericolo.
Maria Vittoria Santoro
Tratto dal bollettino informativo “Il giorno del giudizio“.