8 Maggio 2019
Dietro le transenne, mescolati tra volti e voci, di fronte ai poliziotti che impugnano il manganello in una mano e lo scudo antisommossa nell’altra, catturati dall’obiettivo della telecamera del reporter che per avere una migliore visuale è salito sul muretto, accanto al furgoncino della polizia che intralcia la strada. Era questo il contesto in cui ci trovavamo quando il Ministro dell’interno, Matteo Salvini, lunedì 6 maggio, è salito sul palco di Piazza Portanova di Salerno per il comizio elettorale in vista delle elezioni europee. Eravamo lì e non per caso. Volevamo dissentire dalle politiche del capo della Lega che prevedono divisioni ed esclusioni sociali. Abbiamo creduto fosse l’intento di tutti quelli che ci stavano accanto. Degli studenti universitari, dei docenti, dei cittadini e di chiunque in quel momento si trovasse da questa parte del blocco. Non potevamo andare oltre, fare un passo in avanti, aggirare gli ostacoli, eppure non siamo andati via. Volevamo provare a tenere testa alla politica che oggi ci governa e dirle che ci sentiamo più protetti con investimenti in cultura e progetti sociali piuttosto che in azioni divisive volte alla repressione.
Eppure, questa, è arrivata lo stesso. Nel momento in cui abbiamo provato a portare la nostra contestazione agli interlocutori, constatando l’impossibilità di relazionarci con il Ministro dell’interno e i suoi candidati. Lontani dalla protesta, ogni ingresso possibile alla manifestazione ci è stato negato. In stile GOT, una grande barriera di caschi blu difendeva Matteo Salvini dai suoi acerrimi nemici, e gli estranei eravamo noi, i contestatori, i guastafeste. Lui lì, libero di esprimere le proprie idee, noi qui, ammutoliti dalle grosse distanze. Su un balcone di Corso Vittorio Emanuele, uno striscione rubava un verso di Pino Daniele: “questa lega è un vergogna”. Anche quello sparisce, lo documenta un contributo video girato dal giornalista e attivista Marco Giordano. La Digos irrompe in un appartamento privato, ne minaccia i proprietari, costringendoli a togliere lo striscione rosso. “A chi protesta e fischia, ha vinto 10 clandestini a casa sua”; “zecche rosse dei centri sociali”. Li cataloga così i circa duecento cittadini, ricercatori, studenti e studentesse dell’Università degli studi di Salerno. Sul palco, il Rettore Aurelio Tommasetti alza il pugno con espressione di giubilo, ormai lontano da chi contesta, distante chilometri dai diretti fruitori del suo Ateneo, da chi chiede da settimane le sue dimissioni.
Ci dicevano tutti “Di qui non si può passare, vai a fare il giro dall’altra parte” ma allo sbocco successivo sentivamo lo stesso imperativo. Poco dopo abbiamo capito che non esisteva un’altra parte, un altro vicolo in cui sbucare, un altro mezzo con cui giungere ai piedi del palco. Era una possibilità che nessuno ci avrebbe concesso. Neanche ai non manifestanti, neanche ai passanti intenzionati solo ad ascoltare. In quel momento, allora, abbiamo compreso anche un’altra cosa: che per Matteo Salvini andava bene così. Bunisastavano le persone che si erano già concentrate prima del suo arrivo, tutti eccitati per il suo discorso, tutti a suo favore, tutti fedelissimi, nessuno in dubbio, fuori dalle righe, che potesse alzare la mano o evitare di applaudire ad ogni pausa tra uno slogan e l’altro. Il Ministro dell’interno non è giunto a Salerno per incontrare i salernitani, per confrontarsi con i manifestanti, o per attirare nuovi adepti. Era lì per l’ennesimo selfie, l’ennesimo insulto, l’ennesimo post sui social in cui descriversi come il salvatore degli italiani e, in questo caso, del sud. Lo stesso con cui solo qualche anno fa non andava molto d’accordo e riferendosi al rettore dell’ateneo salernitano, il quale non riusciva neanche per un momento a trattenersi dal sorridere, menziona la celebre ricetta salernitana del merito, quella con cui lui sicuramente avrebbe fatto indigestione nei suoi (tanti) anni di studio.
Ma in fondo anche per noi va bene così. Riscendiamo da quelle stradine, di nuovo, un’altra volta. Rifacciamo la stessa strada all’indietro, incontriamo gli stessi poliziotti con gli stessi scudi antisommossa e i manganelli e ritorniamo al punto di partenza: dietro una barricata, accanto a tanti altri, ripresi dalla stessa fotocamera. Ma questa volta è diverso: ora decidiamo che questo è il nostro posto. Il docente di sociologia urbana dell’Università di Salerno, Gennaro Avallone, ci guarda tutti e dice “va bene così. Siamo stati bravi. Vogliamoci bene”. Scrutiamo allora un ultimo significato a questo momento: non tutte le strade sono bloccate e noi dietro a quel blocco non stiamo solo facendo opposizione a quello che c’è dall’altra parte, stiamo anche creando un’alternativa. La possibilità che un giorno anche le altre strade siano libere.
Antonella Maiorino
Maria Vittoria Santoro