26 Gennaio 2019
C’è un’isola nel Mar Egeo che oggi rappresenta uno dei simboli del fallimento dell’Unione Europea nella gestione dei flussi migratori. Il suo nome è Samos, meta turistica estiva e nota al mondo per aver dato i natali ad Epicuro, Pitagora, Aristarco ed Escrione. Insieme a Kos, Lesbos e Kios, ha accolto in questi anni i migranti provenienti dalla Turchia.
Ankara e L’Unione Europea hanno stretto un accordo nel marzo del 2016. Il patto prevede che i migranti in arrivo dalla Turchia non possano lasciare le isole su cui giungono se prima non ricevono il via libera dai centri di registrazione e identificazione lì allestiti. Questo perché la Turchia ha stabilito che possano far rientro solo i migranti, a cui è stata rifiutata la protezione, che provengono dalle isole greche e non chi, ad esempio, è già giunto in Atene. I migranti sono pertanto costretti a restare a Samos finché qualcuno non assicurerà loro la possibilità di continuare il percorso verso un luogo in cui si potrà stabilire e vivere senza più temere per la propria incolumità. I tempi, però, come noto, non sono mai veloci: si può attendere qualche mese, un anno o anche due se si fa appello in caso di rigetto della domanda. E questo significa che per lunghi periodi di tempo non possono far altro che restare lì: bloccati, senza possibilità di andare via e cercare altrove un luogo in cui vivere.
Di hotspot, centri di registrazione e identificazione, sull’isola di Samos, ce n’è solo uno. Questo comprende, al suo interno, anche uno svariato numero di contener e di risorse primarie per garantire almeno un’accoglienza base ai migranti. Il problema è che l’attrezzatura ivi presente è idonea ad ospitare solo all’incirca seicentocinquanta persone, mentre sull’isola, attualmente, ve ne sono almeno cinquemila. Le persone che non riescono ad avere accesso ai servizi, finiscono per auto-organizzarsi con quello che trovano: si allontanano un po’, si dirigono verso un bosco e lì creano un accampamento. Con tende e oggetti recuperati in giro. Questo significa vivere per lunghi periodi senza acqua con cui lavarsi, senza luce, senza servizi igienici, al freddo e in condizioni di sofferenza. “We are not animals” è ciò che ripetono le persone lì accampate.
Al silenzio delle istituzioni internazionali c’è chi ha provato a rispondere con l’attivismo: un gruppo di operatori umanitari ha creato Samos Volunteers, un edificio dove insegnare l’inglese, fornire qualche pasto caldo e lavare i vestiti. Omar Alshakal ha fondato un’associazione. Lui era già stato sull’isola come migrante e, quando ha ottenuto l’asilo, ha continuato a recarsi sul posto portando con sé buste colme di vestiti, per darli a chi non ha nulla da indossare. L’ente ora si chiama Refugees for Refugees: Rifugiati per Rifugiati. A questi si è aggiunto un giornalista italiano, Nicolò Govoni, che ha fondato una scuola per i bambini dal nome Mazì, che in greco significa insieme. I bambini dovrebbero trovarsi in un settore riservato, più protetto, e invece sono anche loro tra i boschi, senza la possibilità di cambiarsi, di curare il raffreddore o di dimenticare, anche solo per un momento, che sono bambini e non solo migranti. Quella scuola è un modo per non lasciare trascorrere la loro infanzia senza essere andati a scuola, un modo per rendere le loro difficoltà, almeno per qualche ora, meno sofferenti e per fornirgli il diritto all’istruzione di cui tutti dispongono in Europa.
L’isola di Samos è oggi una prigione. Un luogo da cui non si può andare via, se non per concessione del centro d’identificazione. Il problema è che la burocrazia non segue il ritmo quotidiano delle persone. Si dimentica che attendere non significa non vivere più. E le persone a Samos, oggi, più che un lascia passare verso un mondo di favole, hanno bisogno di qualcuno che conceda loro qualche possibilità già ora. Oggi. E non domani. Mangiare regolarmente, dormire su un letto, un tetto sotto cui ripararsi, acqua per lavarsi, accesso ai medicinali e alle cure. Non si può negare questo, non si può immaginare che le persone sospendano la loro vita o che i diritti si prendano una pausa da tutto perché la burocrazia deve fare il suo corso. Ogni volta che si impedisce questo, si impedisce loro di essere persone. Di essere madri e padri che accudiscono figli, di essere spensierati se si è bambini. Di studiare e di provare a creare una propria identità. Di sperare e avere sogni. Samos è un’isola che brulica di persone che desiderano, al di là dell’esito della domanda di asilo, di vivere. E l’Europa dovrebbe iniziare a capirlo.
Antonella Maiorino