23 Maggio 2017
Ci insegnano che la storia è un susseguirsi di eventi interconnessi che accadono con un andamento naturale, seguendo l’orologio biologico della vita e della società. Eppure alcuni momenti sembrano dilatare il tempo, uscire fuori dai consueti schemi di inizio e fine e si protraggono avanti finché non si consumano del tutto. Il tempo si ferma, resta sospeso, non continua. Diventa la falla di un sistema troppo razionale. L’Italia ha conosciuto questi momenti, forse anche uno di troppo, e tuttora si affanna a smaltirne le conseguenze. Sabato, 23 Maggio del 1992, alle ore 17:52 e 48 secondi, sull’Autostrada che collega l’aeroporto di Punta Risi con Palermo, un pezzo d’Italia è morto. Un pezzo buono.
572 kg è la quantità di esplosivo necessaria per creare una crepa nel tempo, nella storia e sull’asfalto. È bastato premere un semplice pulsante per azionare la bomba nascosta all’interno di un sottopassaggio dell’A29 e fermare, così, almeno per alcuni, il tempo. Tre auto stavano percorrendo la strada in quel preciso momento, la prima era quella in cui viaggiavano gli agenti pugliesi Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, morti sul colpo, che hanno avvertito l’impatto più forte. La seconda era una Croma bianca, guidata dal magistrato Giovanni Falcone in compagnia della moglie, anche lei magistrato, Francesca Morvillo. L’ultima, una croma azzurra, in cui sedevano gli altri agenti della polizia, riusciti a sopravvivere alla strage.
Ad azionare l’esplosivo fu Giovanni Brusca, soprannominato lo “scannacristiani”, tra i più feroci e importanti membri dell’organizzazione criminale Cosa Nostra, responsabile di oltre cento omicidi tra cui quello di un bambino, quasi tredicenne, Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, rapito per impedire al padre di testimoniare in sede giudiziaria e tenuto in prigionia per 25 mesi, e in seguito ucciso per strangolamento. Il suo corpo non venne mai ritrovato perché disciolto nell’acido. Arrestato ad Agrigento il 20 Maggio del 1996, secondo le testimonianze, Brusca fu sorpreso intento nel guardare un filmato sulla Strage di Capaci, la stessa di cui fu responsabile e di cui oggi, più degli altri giorni, ci si ricorda.
Responsabile sì, ma non l’unico. I vari gradi italiani di giudizio hanno infatti condannato anche Pietro Aglieri, Leoluca Bagarella, Giovanni Battaglia, Salvatore Biondino, Salvatore Biondo, Bernardo Brusca, Domenico Ganci, Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Antonino Geraci, Filippo Graviano, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Michelangelo La Barbera, Giuseppe Madonia, Giuseppe Montalto, Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Pietro Rampulla, Salvatore Riina, Benedetto Santapaola, Benedetto Spera, Antonino Troia, Giovan Battista Ferrante, Calogero Ganci, Giuseppe Agrigento.
Questa è, però, solo la verità processuale e giudiziale. Quella storica, invece, ha molti più imputati e colpevoli, perché la Strage di Capaci inizia molto prima del 23 Maggio del 1992. Le lettere diffamatorie da parte del “corvo”, la teoria secondo la quale il fallito attentato all’Addaura fosse tutta una messinscena, la bocciatura come Capo Ufficio Istruzione di Palermo hanno sicuramente rafforzato la posizione dei veri nemici di Falcone, che, appunto, di nemici ne ha avuti davvero tanti. Alcuni lo hanno intimidito, altri gli hanno messo i bastoni fra le ruote impedendogli di svolgere il suo lavoro, altri, alla fine, lo hanno anche ucciso. Venticinque anni dopo ci si chiede cosa resta di quel giorno, della memoria di Giovanni Falcone e dell’antimafia, quali effetti ha in fondo determinato quell’evento. Sicuramente la società italiana è oggi una società più consapevole e cosciente del fatto che la mafia esiste e persiste. Ma sui reali meccanismi di antimafia, forse, c’è ancora molto da fare. Tuttora è in Sicilia un altro magistrato, Nino Di Matteo, impegnato in un faticoso Processo che ha ad oggetto la Trattativa Stato – Mafia e la sua solitudine, così come quella di tanti altri magistrati, ricorda tanto quella vissuta da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Ciò che è accaduto il 23 Maggio del 1992, sull’A29, ha sospeso il tempo. Quello di un’antimafia forte, quello dell’innocenza di uno Stato, e quello, in generale, di una parte dell’Italia che ancora, affannosamente, cerca, tra il puzzo del compromesso morale, il fresco profumo di libertà.
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