18 Settembre 2021
È stata chiamata “Senate Bill 8” (SB8) la legge, firmata dal governatore Repubblicano Greg Abbott, che ha come oggetto di dibattito il tema dell’aborto. Il provvedimento, entrato ufficialmente in vigore dal 1° settembre 2021 in Texas, è stato definito dal New York Times il più restrittivo tra quelli presenti negli Stati Uniti. La legge, conosciuta anche come heartbeat act – legge sul battito cardiaco – si basa esclusivamente su quest’ultimo. Infatti, vieta l’interruzione della gravidanza una volta rilevata l’attività cardiaca embrionale, nessuna eccezione in caso di incesto o stupro. Questo accade, generalmente, dopo circa 6 settimane, un arco di tempo in cui la maggior parte delle donne non sa nemmeno di essere incinta. Difatti, secondo gli avvocati di diverse cliniche dov’è possibile praticare l’aborto, questo viene richiesto nell’85-90% dei casi dopo la sesta settimana di gravidanza. Ridurre la finestra di tempo in cui poter fare richiesta equivale a vietarlo a tutti gli effetti.
Nel maggio 2021, quando la proposta di legge fu resa nota, sono state numerose le istanze portate avanti da associazioni di attivisti per i diritti delle donne, appoggiate da diverse cliniche, che chiedevano a gran voce l’intervento della Corte Suprema. Negli Stati Uniti il diritto all’aborto è sancito dalla storica sentenza Roe vs Wade della Corte Suprema risalente al 1973, secondo cui le donne hanno il diritto di interrompere la gravidanza fino alla 22esima-24esima settimana. Di conseguenza, il divieto stabilito dalla SB8 dovrebbe essere definito anticostituzionale. Ciò non è stato possibile, perché Greg Abbott e lo stato del Texas hanno previsto questa eventualità, aggirandola con un trasferimento di poteri. Non sono i procuratori ad assicurarsi che la nuova legge venga rispettata tramite cause penali, ma i privati cittadini attraverso quelle civili. La legge incentiva, con l’ausilio di un compenso economico, i cittadini a fare causa a chiunque pratichi un aborto o aiuti una donna a farlo. Rendendo civilmente perseguibile non colei che si sottopone alla procedura per l’interruzione di gravidanza, ma chiunque renda quest’ultima possibile. A partire dalla cliniche, passando per parenti, amici, conoscenti e persino l’autista – Uber, taxi – che l’accompagna potrebbero incorrere in una causa legale. In caso di vittoria, il privato cittadino che li ha denunciati otterrebbe un compenso economico dal valore di 10.000 dollari. Ciò ha spinto le aziende carpooling, quali Uber e Lyft, a dichiararsi disposte a coprire le spese legali in caso i loro operatori vengano citati in giudizio, lasciando trasparire la loro posizione contraria alla legge.
Se la Corte Suprema – con cinque voti contro quattro – ha deciso di non bloccare l’iter dell’entrata in vigore della Senate Bill 8, i gruppi di attivisti non sono disposti ad arrendersi. Ad Houston, capoluogo della contea di Harris nello Stato del Texas, il 2 settembre ha avuto luogo una protesta pacifica. Le portavoci, due studentesse del liceo e Blair Wallace, stratega legale e politica presso Aclu (American Civil Liberties Union), hanno espresso il loro dissenso soffermandosi principalmente su un punto: a 6 settimane, molte donne non sanno neanche di portare avanti una gravidanza, perché si tratta di un lasso di tempo equivalente a nemmeno due mesi. A dare man forte, si aggiunge anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, portando avanti una mozione d’emergenza presentata il 15 settembre, già annunciata dal ministro della Giustizia Merrick Garland, per bloccare la legge anti-aborto. Il Dipartimento di Giustizia definisce la legge come “un’estrema violazione dei diritti delle donne poiché danneggia in maniera significativa l’accesso delle donne alle cure mediche”.
Le restrizioni imposte negli anni hanno costretto numerose cliniche a chiudere. In Texas – Stato con quasi 30 milioni di abitanti – sono 24 quelle ancora presenti, prima del 2013 ne erano il doppio. Il timore, più che comprensibile, è che questa legge implichi ulteriori chiusure. E che ciò porti le donne ad abortire clandestinamente, con tutte le precarietà sanitarie che questo comporta.
Far chiudere le cliniche sanitarie in cui si pratica l’aborto significa prendere a calci anni di proteste, battaglie, lotte per affermare il diritto delle donne a scegliere sul proprio corpo. “My body, my choice” è uno degli slogan più conosciuti, anche prima della storica sentenza del 1973. La legge del governatore Abbott non sarà di certo l’ultima contro cui gli attivisti, il personale sanitario e, soprattutto, le donne dovranno gridare il loro dissenso o scontrarsi per avere la libertà di scelta. Inoltre, stabilire una retribuzione economica a coloro che denunciano equipara i cittadini alla stregua dei cacciatori di taglie, oltre ad alimentare ancora di più la pressione psicologica ed emotiva che le donne saranno costrette a subire, soprattutto perché a rischiare – nell’ambito giuridico – non saranno loro in prima persona.
Non dovrebbe essere più considerato accettabile un atteggiamento prevaricatore come quello di Abbott e di coloro prima di lui. Perché il carico emotivo a cui le donne che si sottopongono all’aborto, qualunque sia la motivazione, rappresenta già una montagna non facile da scalare, soprattutto considerando i tabù e gli stereotipi radicati nelle società. L’ennesima legge contro l’aborto significa, ancora una volta, decidere per un corpo che non è il proprio. E questo non può essere aggirato da nessuno escamotage.
Annaclaudia D’Errico